Il fenomeno dei figlioli d’arte ha sovente creato imbarazzo e delusioni in campo musicale. Dweezil Zappa, Julian Lennon, Jakob Dylan, Jerome Froese, è lunghetta la lista di coloro che proprio non ce l’hanno fatta a bissare le imprese dell’augusto genitore, anche se un certo conforto ci è venuto ad opera di Jason Bonham e Jeff Buckley, per esempio (ma non sono sullo stesso piano dei loro babbi, credo). Anche il ragazzo Facchinetti non pare paragonabile al papino, che pure non è esattamente Wakeman, e Marco Morandi fa rimpiangere le manate del padre sulla coscia, e insomma deve essere difficile confrontarsi; ne sa qualcosa Cristiano De Andrè, che pure ha talento da vendere ma non riuscirà mai a pareggiare quello del mitico Faber. Ha tutta la mia simpatia.

Eppure il trucco per non sfigurare c’è, e consiste ovviamente nel diversificare l’attività artistica – se proprio quel mestiere devi fare – in modo tale da non giustificare imbarazzanti confronti e conseguenti complessi edipici. Il ragazzo Venditti fa l’attore e non si sogna di cantare, anche se negli ultimi vent’anni anni avrebbe potuto fare facilmente meglio del senior, e Asia Argento recita eccome ma evita la regia di film horror, così nessuno ha la tentazione di accostare le sue opere e quelle di Dario.

Questo deve essersi detto Giovanni Baglioni, classe 1982, che già nasceva segnato da una canzone fin troppo importante e sfanfarata a destra e sinistra in classifica, radio e televisione. Felice del patrimonio paterno lo sarei stato anch’io, nato come sono da un modesto impiegato statale che ha avuto la sfortuna di andarsene fin troppo presto, ma avrei certamente evitato vocalizzi di qualsivoglia genere e avrei fatto – che so? – l’architetto, il pittore, l’ingegnere, evitando insomma ogni rapporto col cantautorato che mi avrebbe procurato sicure amarezze e perenni incazzature. Ed infatti, il pargolo del Claudio – che non riesce a star lontano dalla musica, vuoi per DNA vuoi per costante suggestione ambientale – sceglie astutamente di cimentarsi seriamente con la chitarra classica, strumento che il papà mi sembra di ricordare abbia sempre suonato piuttosto maluccio (‘Poster’ è presa pari pari da un esercizio del Sagreras, ma dei primi).

Il ragazzino si impegna di brutto nel far sì che l’ingombrante cognome non sia d’impaccio, e sviluppa una propria personalità musicale assai spiccata e soprattutto distantissima da quella di casa: dopo i vari Sagreras e Bona, ed esauriti Bach e Villa-Lobos, Giovanni s’innamora della chitarra fingerpicking (ma era successo anche a Claudio, che aveva voluto quel mostro di Giovanni Unterberger nell’album ‘Solo’) e cosa ascolta e prende a modello uno che si interessa al genere? Stefan Grossman, John Renbourn, Bert Jansch, ovviamente. Dopo di che, siccome la sua generazione è un’altra, Giovanni viene colto da ammirazione per Michael Hedges (‘Aerial Boundaries’ aveva già venduto milioni di copie) e prende a studiare le tecniche di tapping circolare, e le accordature più aperte che si può, e parte per la tangente in un ambito ormai inconciliabile con quello dell’orgogliosissimo genitore, che comincia a presentarlo in giro con l’aria di quello che non capisce assolutamente cosa diamine stia suonando quel marziano del figliolo. Ovvio.

Dopo essersi distinto nel Canadian Guitar Festival del 2007, non a caso in un Paese lontano dove Claudio non sanno proprio chi sia, Giovanni arriva alla sua prima incisione nel 2009, questo ‘Anima Meccanica’, un ottimo disco che NON porta alcuna introduzione scritta dal notoriamente verbosissimo padre (come avrà fatto a trattenerlo non saprei) e dove i famosi genitori sono semplicemente ringraziati insieme a molte altre persone, e mi pare il minimo dato i soldini che avranno cacciato.

Nulla fa capire che si tratti di un figlio d’arte: Giovanni spiega la genesi dei dieci brani – ovviamente strumentali, per sola chitarra acustica – senza alcun riferimento al casato, e si lascia ascoltare e giudicare solo per la propria tecnica e le proprie composizioni, ed entrambe sono pregevoli e giustificano ampiamente l’uscita discografica. Non si tratta del capriccio di un figlio d’arte, insomma, ma dell’opera prima di un chitarrista già esperto ed assai dotato di ispirazione e tecnica.

Il riferimento immediato è certamente Michael Hedges, debitamente aggiornato e velocizzato rispetto al modello originario, ma il mio orecchio incuriosito ed interessato coglie suggestioni di Leo Kottke, John Fahey e financo Riccardo Zappa, che negli anni settanta produsse alcuni album davvero notevoli. La lista potrebbe continuare con i nomi dei già citati Grossman, Jansch e Renbourn, e Tommy Emmanuel ed il Pat Metheny di ‘Map Of The World’, ma pure Steve Hackett ed Anthony Phillips non devono essere estranei agli ascolto del bravo Giovanni. I brani sono ottimi nelle loro singole suggestioni e non vale la pena di estrapolarne alcuno, si ficca il dischetto nel lettore e ci si mette in poltrona. La resa sonora è notevole (la Sony Music quando vuole ci sa fare) e l’ascolto è ovviamente interessante soprattutto per i chitarristi, ma godibilissimo per tutti gli amanti della buona musica: rotondo, risuonante, assorto quando serve ma denso di guizzi e di quell’energia che la chitarra acustica sa sempre restituire quando le dita ci sanno fare. A me piace particolarmente ‘Sirena’, ma si sa com’è la musica, ed al prossimo ascolto sarò certamente colpito da nuovi particolari e nuove sensazioni.

In fondo, ascoltare ed apprezzare questo 'Anima Meccanica' vuol dire anche avere fiducia nella costante capacità di rinnovamento della Vita. Gli piacerebbe, a Claudio, suonare uno strumento in questo modo.

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