Se c'è un motivo che mi spinge a simpatizzare per Giovanni Fattori, a prescindere da un sincero apprezzamento nei confronti delle sue opere, è che il pittore livornese si sia sempre rifiutato di costringere il suo modus operandi all'interno di rigidi schematismi teorici. Non che questo atteggiamento fosse il massimo dell'originalità, ma per uno che voleva «mettere sulla tela le sofferenze fisiche e morali di tutto quello che disgraziatamente accade» sarebbe stato quantomeno limitante. Eppure, in barba ai puristi, Fattori divenne il maggior esponente dei Macchiaioli, probabilmente il più importante movimento pittorico dell'Ottocento italiano.
Mi piacque da subito Fattori. Pensavo fosse piuttosto curioso che a scuola, dove per molti miei docenti l'inflessibile rispetto per la regolarità dei programmi sembrava l'unico modo di legittimare il loro stipendio, si divulgassero il pensiero e le opere di uno che disdegnava l'apprendimento teorico e la disciplina, in favore della spontaneità, dell'estro e dell'osservazione libera. La consideravo una piccola vittoria, per quello che potesse valere. Ed io, polistrumentista autodidatta fin dalla tenera età, allergico a qualsiasi manuale di teoria musicale, mi rispecchiavo in questo approccio, e non potevo non restarne affascinato.
Va bene che dietro al termine "macchia" vi è per forza di cose una teorizzazione, ma in fin dei conti, quale teoria potrebbe davvero descrivere le "sofferenze fisiche e morali" di cui sopra, meglio della vita stessa? Forse per averne una chiara percezione dovremmo prima consultare il parere di esperti, o abbracciare in maniera acritica una corrente di pensiero?
Qualcuno provi a spiegarlo in termini tecnici al povero vecchio protagonista del dipinto "Cavallo Morto", cos'è la sofferenza.
Malgrado l'avvilente staticità visiva, "Cavallo Morto" è un'opera concettualmente dinamica, nella quale il momento raffigurato è soltanto una drammatica istantanea di un'intera vita scandita dalla sofferenza. Dietro la potenza dell'immagine c'è il destino che non guarda in faccia a nessuno, e non esita ad accanirsi contro un vecchietto che ha trascorso un'esistenza di stenti e completamente spesa per il lavoro. Chissà per quanti anni avrà percorso quella strada desolata insieme al suo cavallo, sotto la pioggia o sotto un sole rovente. E chissà se a casa, alla fine di una faticosissima giornata, lo attendeva una bella minestra calda. La morte del cavallo, compagno di vita e risorsa indispensabile per il suo lavoro, interrompe bruscamente quella routine che era al tempo stesso logorante e rassicurante. L'animale stramazza improvvisamente al suolo lasciando il contadino in mezzo ad uno spazio sconfinato, letteralmente al centro del nulla, cosa che per un vecchio stanco e acciaccato equivale ad essere murato vivo. Non sappiamo se i due fossero sulla via del ritorno o se la giornata lavorativa fosse appena cominciata; qualsiasi fosse la direzione, questa è ormai irraggiungibile a causa dell'imprevisto appiedamento. Come se non bastasse, il cielo si annuvola all'orizzonte, lasciando presagire un temporale. Il pover'uomo appare sopraffatto e inebetito, quasi stentasse a realizzare l'accaduto.
È qui che il pittore ritiene opportuno fermarsi, con un tempismo "fotografico". Sembra voler immortalare questa situazione angosciante prima che il coinvolgimento empatico dello spettatore diventi troppo straziante. Dopo lo smarrimento iniziale, infatti, sarebbe affiorata la consapevolezza di ritrovarsi solo al mondo, e che nessuno sarebbe venuto a soccorrerlo, tantomeno con un nubifragio in arrivo.
E adesso che lavoro, affetti ed energie se ne sono andati, tanto vale sedersi, distendersi. Non ad aspettare, ma a riposare, magari definitivamente, nella speranza che il destino, nel frattempo, si sia divertito abbastanza.
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