«Ahò, ma stai composto, sei proprio un coatto».
È che non so mai dove mettere le mani quando non le tengo impegnate: in tasca no perché ce le ho sempre piene di robba inutile; a braccia conserte nemmeno, mi sembrerei un intellettualoide annoiato; dietro la schiena o lungo i fianchi, manco per sogno, troppo da militare sull’attenti. Per cui, immancabilmente infilo i pollicioni nei passanti dei gins e le mani le tamburello a tempo sulle gambe.
Come un coatto, sì, me lo fanno notare ma ho sempre fatto spallucce.
A maggior ragione, faccio spallucce da quando ho visto il video di «Wild Tiger Woman» ed ho conosciuto i Giuda ed i Giuda mi hanno presentato i Mud e loro li ho visti suonare «Dynamite».
Qui ed ora, è tempo di Giuda e di chiudere un cerchio aperto un po’ di tempo fa con i Bingo e, poi, i Taxi.
Roma Caput Punk.
I Taxi chiudono la loro storia dopo la morte del batterista Francesco; sono un gruppo di amici, chi si conosce dalla nascita chi sui banchi alle elementari, e non avrebbe senso proseguire oltre fingendo che nulla sia cambiato; e quindi Tenda, Lorenzo e Danilo si prendono del tempo, per vedere se gli passa la smania del roccherrolle e riadattarsi al quotidiano tran tran casa-lavoro-casa.
Quella smania non gli passa, nel tempo libero si ritrovano sempre a San Lorenzo davanti al locale dove provavano, ma far nient’altro che ricordare è molto più frustrante che tornare in azione, e la frustrazione può essere letale, in certe plumbee periferie capitoline.
Ci sarebbe lo stadio, la Roma e le gesta di Capitan Totti, ma ci si partecipa malvolentieri da quando la partita di pallone è diventata per troppi il pretesto per menare le mani e sfoderare coltellacci, e poi ci si ritrova un paio di volte al mese, grasso che cola, quando invece la passione andrebbe sfogata ogni giorno.
Tenda, Lorenzo e Danilo, alla fine, tornano in azione.
Arruolano Michele e Daniele, affittano un garage come sala prove e scelgono quel nome, Giuda: nessuna implicazione socio-politica, solo che «... è un nome che rimane impresso, che suona bene e che è bello da vedere scritto sulla copertina di un disco ...».
Dalla fine dei Taxi all’esordio dei Giuda passano tre anni, e non passano invano.
Chiariamoci, i Taxi erano un gruppo decisamente orientato sul punk ma non disdegnava di ostentare alcuni atteggiamenti, prese di posizione e scelte stilistiche che un panchettaro quadrato avrebbe potuto a ragione etichettare come eretiche, basti pensare al tributo slang al movimento glam ed agli Slade in primis racchiuso in quel «Yu Tolk Tu Mach» che funge da titolo del loro secondo ed uiltimo album.
Poco da stupirsi, quindi, se i ragazzi sostengono convintamente che «... dopo la psichedelia dei sixties e i virtuosismi dei supergruppi dei primi anni settanta, sono state band come T-Rex e Slade a riportare il rock’n’roll sulla terra ...»; per molti altri furono i Ramones a salvare il futuro del rock’n’roll che soffocava sotto la tunica di Rick Wakeman.
I Taxi, prima, ed i Giuda, ora, amano allo stesso modo i Ramones e gli Slade e propugnano con fierezza la contiguità e la comunità tra glam e punk; e tanto meno abbassano gli occhi quando sul palco immancabilmente attaccano «Saturday Night Is Alright For Fighting» di Elton John.
Ecco tutto quello che erutta con violenza all’ascolto di «Racey Roller», album d’esordio dei Giuda datato 2010, glam e punk che ad una certa iniziano a limonare spudoratamente e furiosamente, per dieci brani consumati in nemmeno venticinque minuti; e qualcuno la definirebbe una sveltina, ma da ricordare a lungo.
A partire da quella «Number 10» che inizia la storia e che non c’è nemmeno bisogno di dirlo a chi è dedicata, oppure ognuno la dedica a chi vuole lui. chi li vede suonare a Napoli la pensa per Maradona, a Firenze per Antognoni, ed intanto ogni campanile ha il “suo” numero dieci.
E se vi sembra una solenne castroneria, allora questa castroneria è talmente contagiosa che James Pallotta è il fan numero uno dei Giuda; qualche anno fa li incrocia in un locale di New York, li riconosce ed attacca discorso, e la sera è lì sotto al palco a pogare come un matto; mentre a Capitan Totti glieli presentano in quel del centro sportivo di Trigoria e lui si guarda il video di «Number 10», ride e scherza ed alla fine si fa ritrarre con la sciarpetta con su scritto «I’m A Giuda Fan»; ed è tutto vero.
Nonostante i timori per il cambio di rotta, «Racey Roller» riscuote i consensi del pubblico e vende una decina di migliaia di copie, e chi se lo sarebbe mai aspettato.
Ma quel piccolo successo i Giuda se lo meritano tutto ed alla grande, perché la loro musica è una ventata di freschezza come non si sentiva da tempo, come non si sentivano da troppi anni gli hand-clapping a rinforzare il rullante, certi cori che si potrebbero dire “quasi” oi o da stadio, visto il contesto, ma fate vobis; comunque sia, è un gran bel disco per suonare Roma.
Ma non solo ... Il nome dei Giuda comincia a circolare anche e soprattutto all’estero ed i nostri ragazzi arrivano a suonare spesso oltre confine e pure oltre oceano, strappando un ingaggio discografico alla svedese Burning Heart Records, e ritrovandosi al fianco di Turbonegro, Refused, Millencollin, insomma.
Per la Burning Heart, nel 2015 i Giuda incidono «Speaks Evil», il loro terzo disco.
Prima però è venuto «Let’s Do It Again», anno dimini 2013, che percorre le stesse strade batture nell’esordio, e mette in fila una serie di pezzi da brivido, a partire da «Teenage Rebel» ed «Hey Hey» fino a quella «Wild Tiger Woman» che da qualche anno a questa parte mi fa alzare spallucce a chi mi addita come coatto e cattivo esempio da non imitare.
Altro album da custodire gelosamente, per chi ama certe sonorità, altro inatteso successo di pubblico, altri riconoscimenti: i Giuda girano tanto e suonano a fianco di gruppi i più disparati, dai Napalm Death agli ZZ Top.
«Speaks Evil» non molla la presa.
Lo si capisce da subito, da quella «Roll The Balls» che, con immutata forza, mantiene la posizione e «Mama Got The Blues» e «Working Class Man» la consolidano; e poi si spinge alla conquista di nuovi territori ai confini con il pop’n’roll più energico, ché altrimenti non si possono definire «Bad Days Are Back», «It Ain’t Easy» e «You Can Do Everything».
Passione, emozione, divertimento: «Speaks Evil» ha tutto quello che serve a fare grande un disco roccherrolle.
Poi, possono piacere o non piacere, i Giuda, ma di certo non lasciano indifferenti.
E nessuno pensi di liquidarli bollandoli semplicisticamente come coatti.
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