Il mondo della provincia è il più delle volte uno spettacolo mortale, quasi come se la vita dell'uomo negli spazi aperti, nelle distese natuali attraversate da rare e dissestate vene di catrame risvegli in lui il lato animalesco, memorie del tempo in cui eravamo maiali. No, non scimmie, maiali. Mario Cioni (Roberto Benigni) sguazza nel fango delle periferie di Prato, passa le giornate nei cinema a guardare film porno assieme al suo gruppetto di amici rozzi e volgari, prova a rimorchiare vecchie signore ai balli per anziani, vive in casa con una madre asfissiante che lo detesta. Una cosa gli dà conforto: lo spaventapasseri di Berlinguer, dal quale nasce l'ideologia per il comunismo e la spinta a frequentare la Casa del Popolo, seppur incapace di partecipare ai dibattiti. Cioni, come i suoi coetanei, è ossessionato dal sesso, il mondo attorno a lui è un teatro d'oscenità e volgarità non fini a se stesse ma conseguenza del malessere della sua gente, il basso proletariato primitivo e rurale che non sa uscire dalla propria condizione se non attraverso divagazioni mentali. Cioni è bloccato, non ha un dio, crede solo in due cose: la fiHa, e Berlinguer. Ed entrambe restano illusioni lontane.

Esordio alla regia per il Bertolucci sfigato, che ha il merito di lanciare nel 1977 quello che diverrà col tempo un'icona nazionale. Roberto Benigni qui è lontano anni luce da quelle che saranno le passerelle di Los Angeles e gli abiti eleganti, e si nota in lui quello che è il suo vero mostro: disordinato, sconclusionato, illogico, sentimentale. Il personaggio di Mario Cioni è una travolgente, vulcanica espressione della povertà materiale e spirituale, è qualcuno a cui sembra vada sempre tutto storto: quando finalmente riesce ad invitare una tardona a ballare gli amici gli fanno credere che la madre è morta, quando perde a carte è costretto ad offrire all'amico Bozzone le grazie della madre invece ancora viva. In questa prima opera rude, rossa e proletaria, Bertolucci si fa guidare a un Benigni che già due anni prima aveva portato a teatro il monologo "Cioni Mario di Gaspare fu Giulia" e fa di Mario Cioni la personificazione dell'incapacità di comunicare un amore interiore, amore per la madre, prima descritta come soffocante ma poi pianta con uno degli sproloqui più travolgenti che si ricordi (può appareire comico, ma è di una drammaticità sconvolgente), seguìto da uno sconfortante monologo su seghe e aldilà prima della notte passata a dormire sotto a un ponte. Amore per le idee, per quel comunismo da lui descritto come polluzione notturna, il comunismo che come la prima eiaculazione ti mostra la via, poi se la si segue c'è solo da godere. Amore, forse, per una ragazza verso cui per la prima volta non prova un primitivo istinto sessuale ma desidera solo andarci al mare assieme, tuttavia uno sputo cancellerà quell'unico contatto che aveva con lei. Il tutto unito da un filo ideologico che collega politica, femminismo, religione, la speranza nella rivoluzione come fuga dalle proprie frustrazioni. E su questo filo si muove Mario Cioni, Roberto Benigni, portavoce di quella razza messa in rima dall'amico Bozzone, una razza che non si fa problemi a volersi trombare anche la mamma:
"Noi semo quella razza che non sta troppo bene che di giorno salta i fossi e la sera le cene, lo posso gridà forte, fino a diventà fioco, noi semo quella razza che tromba tanto poco, noi semo quella razza che al cinema si intasa pe' vedè donne gnude, e farsi seghe a casa, eppure la natura ci insegna sia sui monti sia a valle, che si po' nasce bruchi pe' diventà farfalle, ecco noi semo quella razza che l'è fra le più strane, che bruchi semo nati e bruchi si rimane, quella razza semo noi è inutile fa' finta, c'ha trombato la miseria e semo rimasti incinta".

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