Quando questo film fu presentato a Cannes, tutti o quasi si sarebbero aspettati un film sulla Sicilia, con bambini, o sulla nostalgia. Lo stesso Tornatore fece in modo di tenere nascosto il copione a tutti, se non ai due protagonisti, proprio al fine di destabilizzare lo spettatore, e non sarà neanche questo l'unico stratagemma asservito a tale intento.
Girato a Cinecittà, in lingua francese, il film è una narrazione dello stato di pre-morte; del superamento di una profonda crisi esistenziale, nonché crisi della scrittura. Un'allegoria del nostro paese, per alcuni, per mezzo dell'interrogatorio prolungato che funge da fulcro all'opera: in film fu girato nel 1993, nel pieno dello scandalo Mani pulite; allegoria però disconosciuta dal regista.
Da notare l'attenzione armonica verso tutte le componenti del fim, fra cui il sonoro, con una partitura musicale atonale, a cui gli elementi tonali vengono aggiunti in concomitanza alla dischiusione di alcuni elementi del giallo, e che aderisce alla stuttura drammaturgica del film. Altrettanto si può dire della scenogrfia, con questa caserma arroccata, semidistrutta, che allude forse ad una chiesa, dalla quale profonde un senso di umidità, esponenzialmente aplificato dalla pioggia e l'effetto luminoso di questa sul volto dei protagonisti.

L'inizio coincide con una lunga soggettiva in prima persona che dà l'idea di qualcuno che scappa, ossia Gérard Depardieu, prima ed unica scelta di Tornatore per il ruolo di Onoff: uno scrittore dall'aspetto rude, che poco si addice alla professione, che viene fermato e condotto in una caserma perché trovato in uno stato confusionale, e dove sarà interrogato da Roman Polanski, scelto invece, appositamente, per depistare il percettore non abituato a considerarlo come attore, anziché regista. Il fatto che il film sia stato pensato proprio per i due attori, è un fatto che ho scoperto in un secondo tempo, ma avvertito fin da subito attraverso lo scontro dialettico tra i due; con diverse citazioni poetiche create per l'occasione da un autore francese. Il tutto snodantesi sotto lo sguardo di Sergio Rubini nel ruolo di poliziotto che redige il verbale tra i due.
Messo in guardia (quanto lo spettatore) dalla figura del commissario, Onoff inizierà a contraddirsi, in modo banale, o forse casuale...afferrando subito di trovarsi in un contesto ineffabile e sconosciuto, e aperto a mille letture, alcune delle quali l'autore non avrebbe mai assolutamente pensato, ma nondimeno legittime.
La grande intuizione alla base del film, corredata da elementi gotici, viene mantenuta in modo magistrale anche in scene radicate nella razionalità, quali la canonica telefonata concessa al prigioniero, che riuscirà ad ascoltare l'interlocutore dall'altra parte del telefono, ma non a farsi sentire; o anche nelle pagine del verbale che si riveleranno bianche e le tante penne, tutte prive d'inchiostro

Non tutto nel film, però, è a regola d'arte: alcune sequnze relative all'hobby della fotografia dello scrittore paiono disconnesse rispetto alla trama; mentre alcune inquadrature, dall'interno di un cesso o sotto la macchina da scrivere, riguardate come virtuosismi inutili, le si addicono.
Un soggetto teatrale, anche, che sarebbe piaciuto a Kafka; intersparso con frammenti d'immagini (in molti casi singoli fotogrammi) proposte in rapidissima sequenza in qualità di fashback; un giallo, che presenta anche un sottotema occulto, per così dire: rivelato dal regista, ma assolutamente intellegibile a mio modo di vedere, e che per tanto non riporto. Un film, a parte tutto, imperdibile, che nella sua intuizione ha ispirato diverse produzioni hollywoodiane, che ottennero un seguito più largo nonostante infinitamente inferiori.

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