"Si chiamava Moammed Sceab

Discendente di emiri di nomadi

suicidaperché non aveva più Patria

Amò la Francia e mutò nome Fu Marcel

ma non era francese e non sapeva più vivere

nella tenda dei suoi dove si ascolta la cantilena

del Corano gustando un caffè

E non sapeva sciogliere il canto del suo abbandono

L'ho accompagnato insieme alla padrona dell'albergo

dove abitavamo a Parigi dal numero 5 della rue des Carmes

appassito vicolo in discesa

Riposa nel camposanto d'Ivry sobborgo che pare sempre

in una giornata di una decomposta fiera

E forse io solo so ancora che visse".

 

Abbandonato, sfiorito, sradicato. Perduto. Questo era Moammed Sceab. Questo è l'uomo del secolo XX: apolide e non cosmopolita, a tutti e a sé stesso straniero. Solo. I miti trionfanti e belli del positivismo sono ormai un'eco lontana e indistinguibile, da esultanti proclami del progresso si sono trasformati in sordi e inascoltati lamenti. Una vita finisce nell'indifferenza di tutti, solo l'affetto di un amico a offrire labile conforto. Una vita finisce nell'anonimato assoluto di un condominio del Quartiere Latino; nel centro di una capitale che dicono sia la città del futuro e di un'era nuova, a due passi dall'Università, a due passi dal cuore della cultura occidentale; dalle cattedre da cui insegnarono Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, a due passi da quelle aule donde emanò il Pensiero stesso di cui tutti noi siamo figli. Moammed anche, avrebbe voluto esserne figlio. Per amore della Francia aveva persino rinunciato alle sue nobili origini, era partito - novello Ulisse - alla costruzione della sua esistenza. Ignaro del fatto che ogni viaggio porta con sé un abbandono, una meta insicura. Ma non avrebbe trovato tesori né meraviglie né Feaci sulla sua strada, solo la consapevolezza di non appartenere più a niente e a nessuno. Neanche a un'Itaca alla quale mai più fare ritorno, perché recisi erano ormai i suoi legami con essa. FU Marcel - lo diventò senza esserlo. Posticcia creazione artificiale, un uomo senza più identità. Un ramo spezzato prima di fiorire. 

Abitante non di Parigi né dell'Africa, ma di un eterno interposto spazio vuoto, aveva scoperto l'esistenza di un deserto ben più tremendo di quello conosciuto dagli emiri suoi antenati. Il "canto dell'abbandono" non si era sciolto, era rimasto un nodo in gola. Un nodo tanto forte da soffocare. 

Due anime ad accompagnare il suo corpo, giù per quell' "appassito vicolo in discesa" - il viaggio prosegue, ma verso il baratro. Il mare ha inghiottito Ulisse per sempre, stavolta nessun espediente salverà l'eroe (ma quale eroe? Non ci sono dei né eroi, in questa storia). Una strada senza vita gli fa da lugubre grigia cornice. L'aria è quella di una fiera che si conclude; tutti se ne vanno, il brulicante formicaio di qualche attimo prima si dissolve nel nulla. Carne in lenta decomposizione, energia e vita trasformarsi in cenere.

Una speranza: dove la vita condanna, la Poesia salva. Il Poeta eterna laddove gli altri dimenticano. E come "lettere piene d'amore" possono nascere accanto al cadavere di un compagno, nell'estremo slancio di un disperato attaccamento alla vita, così il ricordo di un amico può diventare sigillo attraverso la parola scritta. Tutti oggi sappiamo chi è Moammed Sceab, pur non avendolo mai conosciuto.

Nella desolazione dello spazio bianco, poche parole che si imprimono indelebili. 

"Quando trovo in questo mio silenzio una parola, scavata è nella mia vita come un abisso". 

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