Vi dico subito che è lunga, questa recensione. Che poi non so neanche se me la pubblicano, a dire il vero, visto che è la prima...
Tutto è nato da una passeggiata in una libreria del centro, senza voler comprare nulla, e col preciso obiettivo di scroccare la lettura di un po' di pagine prese qui e là alla carlona (vale a dire "con metodo empirico", come direbbe Mannheimer). Fuori diluviava che Dio (o chi per lui) la mandava e, come dicono le statistiche - secondo le quali 8 italiani su 10 entrano in libreria solo quando piove - i locali erano traboccanti di gente. I vari Faletti, Highsmith, Coelho, Brown, Smith, Cornwell, troneggianti in bella vista sugli scaffali con la loro brava fascia da "Xesima edizione", andavano via come il pane. E' in quel preciso istante che mi è saltato in mente quel che mia nonna mi raccomandava sempre:
"Non comprare, né leggere, né, tampoco, regalare libri che siano:
1) avvolti in una sovraccoperta; 2) avviluppati in una fascetta di un qualsivoglia premio; 3) scritti da una donna in avanzato stato di menopausa; 4) scritti da un autore dal doppio cognome; 5) provvisti, in 4° di copertina, del commento entusiasta di un altro scrittore; 6) definiti un "classico"; 7) scritti da persone apparse al Maurizio Costanzo Show o nel salotto di Vespa; 8) nei primi dieci tra i più venduti; 9) scritti da autori provenienti da aree classificabili come "depresse"; 10) rintracciabili dal commesso in un tempo inferiore ai 3 minuti e in un numero di imprecazioni ed improperi minore di tre".
Capirete che questo ferreo Decalogo, cui ho sempre cercato scrupolosamente di attenermi, limitava fortemente il campo della mia ricerca. In preda a rammarichi di tal fatta, ho tristemente guadagnato lo scaffale destinato al reparto "musica", in prossimità del quale mi sono ricordato come fossi alla ricerca da mesi di alcuni libretti d'opera, difficilmente trovabili. Ce n'erano tantissimi, lì. Tutti, praticamente. E l'occhio m'è caduto su quello de Il Rigoletto. Lo apro, lo sfoglio, lo leggo... e cado in uno stato di prostrazione indicibile: mica era un semplice libretto! Eh, no! Era un libretto con traduzione: da una parte il testo italiano e dall'altra..... il testo italiano!!! In due parole: traduceva in italiano contemporaneo il linguaggio dell'opera. Ci vuole un esempio, mi rendo conto.
Rigoletto, scena prima, atto primo: quel puttaniere (si può dire?.. O è pubblicità?...) del Duca di Mantova, rivolto ad un cortigiano: "Della mia bella incognita borghese toccare il fin dell'avventura io voglio"... Traduzione: "Mi piacerebbe che il mio flirt con quella donna che conosco solo di vista potesse finalmente concludersi". Ma siete ubriachi o cosa? Chi è, che ha bisogno di una scempiaggine simile? E poi... "flirt", ormai, lo dicono solo Silvana Giacobini e Cristina Parodi, andiamo! Sarebbe moderno, questo?...
E non ho potuto fare a meno, allora, di ripensare alle ultime due composizioni del Peppino di Busseto: l'Otello e il Falstaff.
E' il 1887, quando Verdi - ormai 77enne - termina la partitura del primo, a 16 anni di distanza dall'Aida, l'opera precedente. Le prime fotografie di questo lunghissimo e (musicalmente) sterile arco di tempo consegnano alla storia un Verdi da cartolina da Circolo Arci: in un parco imprecisato, come un pensionato qualsiasi, a dare da mangiare ai piccioni con uno sguardo felice e inconcludente; a passeggio per Milano sottobraccio con la sua ex-concubina (ora legittimata) Giuseppina Strepponi; a giocare a carte coi suoi vecchi amici di Busseto, bevendo vino ed avendo l'aria di avere la bestemmia sempre pronta (come un Guccini ante litteram). Addirittura, lo si commemora da vivo, inaugurando un suo busto alla Scala, col Cigno di Busseto che, probabilmente, si sprofonda in contadine raschiate di zebedei.
Fu Arbasino, se non ricordo male, a dire: "La carriera di un artista si articola in tre tappe: "brillante promessa, solito stronzo, venerato maestro". Ecco... Verdi era arrivato all'ultima fase, quella in cui si beccano i premi alla carriera e le probabilità di venire invitati da Daniele Piombi aumentano vertiginosamente.
Gli Scapigliati già premono, proprio come i "Capelloni" nel '68 (ci dev'essere una qualche relazione tra rivoluzione e cuoio capelluto...)! "Bravo, bene, bis"! Ora, però, fuori dalle balle, Maestro! Largo ai giovani! E questi scapigliati trattano Verdi come Cesare Cremonini tratterebbe oggi Don Backy, in fin dei conti. E il Cesare Cremonini di allora si chiamava Arrigo Boito, un dandy più o meno trentenne davanti ai cui atteggiamenti avrebbe avuto da ridire pure Giampiero Mughini. E quante gliene aveva dette, a Verdi! C'era andato giù duro davvero! ‘Sto figurino impomatato, nel 1863, aveva addirittura scritto un inno contro Peppino, accusato di aver "bruttato come un muro di lupanare" l'altare dell'arte italiana. Oggi, visto l'accanimento fra i due, ci avrebbero fatto un Reality Show... Allora, invece, ne vennero fuori due opere memorabili: Falstaff e Otello, appunto.
L'idea venne al "produttore", come si chiamerebbe oggi. Eh sì... fu Giulio Ricordi a intravedere un capolavoro (anzi, due..) in questa cagnara e a proporre la cosa ai due. E Peppino, a più o meno 80 anni, si mette lì di buzzo buono e tira fuori due opere completamente diverse dalle precedenti, capaci di fare da contraltare all'intero suo passato e di vederlo con l'occhio del "giovane" e, pertanto, di prendersi per il culo da solo. E quel fighetto di Boito mette la sua penna miracolosa al servizio di colui che ha sempre avversato, fornendogli parole che si incastrano meglio di quelle che aveva scritto per la sua stessa musica ("Mefistofele"). A volte succedono queste cose, nel mondo dell'arte... Nove volte su dieci ci troviamo di fronte a una meraviglia.
La stessa cosa accadde a Lucio Battisti, se ci si pensa bene. Arrivato alla fase di "venerato maestro", decise di mettersi ancora in discussione. Si ritirò in un volontario esilio in Brianza (doveva evidentemente espiare una qualche colpa...), prese un paroliere sconosciuto, barocco, ermetico, (Pasquale Panella) e cucì addosso alle sue frasi sconnesse una musica nuova, "capace di fare da contraltare all'intero suo passato" di non-sarà-un'avventura-che-ne-sai-tu-d'un-campo-di-grano-motocicletta-dieci-accapì e sfidare il nuovo. E così fa Verdi, che, nel Falstaff, fa dire a Mrs Quickly "Povera donna...", con le stesse note ribattute di Violetta in "Traviata" un'ottava più in basso, citando, parafrasando e beffeggiando sé stesso.
E così Verdi, fomentato da Ricordi, si mette con passione al lavoro. E le sue passioni, da sempre, sono due: i reietti (o gli "emarginati", come diremmo oggi...) e Shakespeare. Di sfigati, ne ha musicati parecchi, in effetti... Rigoletto, Traviata, la schiava Aida. Ma di Scecspir, invece, ne ha fatti proprio pochini: uno solo, se non ricordo male (Macbeth). E dunque piglia il catalogo del buon Guglielmo Scuotilancia e decide di trattare di un negro (sì... "negro", non "nero" o "di colore") e di un ciccione ormai anziano che però non ha perso il piacere per il vino, le donne, lo scherzo. Le differenze fra le due composizioni sono abissali: tanto per cominciare, la prima è un'opera seria. Serissima. La seconda è tra le cose più divertenti che si possano ascoltare, se si eccettua l'intervento di Flavia Vento al Congresso della Margherita. Eppure i due lavori sono uniti da alcuni fili conduttori evidentissimi. Il linguaggio, innanzitutto. Che è qualcosa d'una bellezza sovrumana e che fa sembrare vecchio di 200 anni Francesco Maria Piave (il maggiore dei librettisti verdini). La musica, in secondo luogo: chi dice che Verdi è bandistico dovrebbe ascoltare queste due cosette, per rendersi conto di quanto sbagli, e di quanto fosse capace di mettersi in discussione, questo signore. Riesce difficile credere che l'autore del Falstaff sia lo stesso del Rigoletto, se non impossibile. Se si ascolta il Falstaff, non c'è un solo pezzo musicale che rimanga in testa dopo l'ascolto. La vecchia "forma chiusa" è andata a farsi benedire.
Quel che resta è una sensazione di rimescolamento, coi personaggi - e la musica che ciascuno si ritrova addosso - che si inseguono, senza trovarsi mai. Se non alla fine, quando Boito fa dire a Falstaff, ormai stanco e soddisfatto, "un coro e terminiam la scena!", strappandolo alla finzione scenica. Questo prima che tutti i personaggi diano vita all'ultimo inseguimento reciproco e si incontrino - stavolta davvero - sul do sovracuto di Alice, che chiude l'opera.
A quel punto, con la sua frase, Falstaff ha fatto uscire i personaggi dalla loro gabbia, e non esistono più. Esistono LE PERSONE. Che - come si usava 100 anni prima e come Verdi aveva sempre avversato, ritenendolo un espediente antiteatrale - si riuniscono sul proscenio davanti al pubblico e danno il via ad una vorticosa fuga sulle parole "Tutto nel mondo è burla".
Il Falstaff, l'ultima opera verdiana, si chiude così, sulla scena. In strada, invece, con l'ottantenne compositore portato in trionfo dalla folla acclamante per le vie di Milano. E con Arrigo Boito che, come Nanni Moretti in Ecce Bombo, un po' in disparte, vicino a una finestra in controluce, dopo essersi chiesto "mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?", sembra dire... "Giuseppe sa fare molto bene il giovane".
p.s. Consiglio due edizioni:
Otello: Edizione DECCA con Del Monaco, Tebaldi, Protti - Dir. von Karajan
Falstaff: Edizione DEUTSCH con Taddei e ancora Karajan sul Podio
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