Prendete Thom Yorke e mettelo al bancone di un bar. Che bar sia non importa, ma facciamo finta sia uno di quelli da radical chic in centro Milano. Di fianco a lui fate sì che ci sia Jónsi. Entrambi affranti come gli avessero diagnosticato una malattia terminale. Uno sguardo d'intesa e il pronunciamento della fatidica domanda: "Che facciamo stasera?".
Se avete pensato "ci si sbronza" o "si guarda un film", siete fuori strada. Se invece avete pensato "si scrive musica" ci avete preso. E il risultato sono i Glass Vaults. Più o meno.
Richard Larsen e Rowan Pierce sono neo-zelandesi. Richard Larsen e Rowan Pierce sono le menti dietro ai Glass Vaults.
I Glass Vaults sono gli autori del miglior EP di quest'anno.
Musica ambient eterea e celestiale sospesa tra il piano fisico e quello astrale, con netta pendenza verso quest'ultimo. Quattro tracce che, non so se mi spiego, sono più di là che di qua. Ogni tanto si affacciano sulla scena droni stranamente dolcissimi e cullanti, piuttosto che ansiogeni e nervosi com'è solito per gli artisti che si cimentano in queste composizioni. La partenza "Golden", con le sue chitarre liquide, può sapere di post-rock, e non è sbagliato pensarlo. In più frangenti i punti di contatto con i Sigur Rós sono palesi (in quel bar c'era Jónsi dopotutto, no?), a tratti ricordano anche i Dead Can Dance, il cantato è Radiohead-oriented (e chi era l'altro alcolista al bancone?), il risultato si esprime in canzoni che trapassano la carne per arrivare dritte al cuore, elevandolo a puro spirito trascendente questa realtà.
La finale title-track, in netto contrasto con l'introduzione sognante di "Golden", si lascia terminare tra rumorismi vari, quasi a simboleggiare metaforicamente il corso dell'esistenza.
Per riassumere ciò scritto fin'ora, basterebbe una frase: se mai dovessi ascendere al cielo, in ogni caso assai improbabile, e dovessi scegliermi una colonna sonora adeguata, sceglierei questo album.
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