Vi parlerò del bianco dalla voce nera, The Voice of rock, colui che assieme a Coverdale in 2 album, e a Bolin in un terzo, "rinfrescò" il suono consoldato dei Deep Purple in virtù di doti vocali uniche e di uno stile al basso molto funky, oltrechè di un background musicale che sapeva uscire dai rigidi canoni dell'hard rock purpleiano, arricchendolo così con iniezioni di funky e soul che non fecero altro che rendere quel suono meno "pastoso" e ancor più vario. Ascoltati oggi, quei tre dischi ("Burn", "Stormbringer" e "Come taste the band", of course) risultano ancora attualissimi e freschi, forse anche più di un "In rock": ma questo, va da sè, è un parere del tutto personale.

Dopo aver esordito nei Trapeze ("Medusa" e "You are the music, we are just the band" sono 2 validi album, x chi non li conoscesse) e aver, come detto, militato nientemeno che nei Purple, coi quali conosce il successo planetario, Glenn Hughes, a seguito dello scioglimento della band e della prematura morte dell'amico Tommy Bolin (il giovane e talentuoso chitarrista cui i Deep si rivolsero per sostituire Blackmore, il cui stile epico e neoclassico ormai non era più in sintonia col nuovo suono della band) si trova a dover riorganizzare la sua carriera. Inizia così per lui un periodo sempre più travagliato e difficile, caratterizzato da eccessi (nell'uso di droghe), e fallimenti di progetti mai nati o morti sul nascere, così come da collaborazioni anche eccellenti (penso all'album con Pat Thrall), clamorose (vedi l'album coi Sabbath di Tony Iommi, "the Seventh star"), o solo discrete ("Run for Cover" di Gary Moore), ma tutte sempre troppo estemporanee, mai stabili e durature (cito anche, per completezza e per il valore delle opere, il super-progetto Phenomena e l'album "Face the truth" dell'ex Europe John Norum).

Da questo lungo periodo di crisi anche interiore, che il nostro ricorderà nei testi degli album a venire come una sofferenza che precede una rinascita personale, Glenn Hughes esce disintossicato e armato di buone intenzioni, e dopo aver inciso l'esordio solista nel 1993, "Blues", nel 1994 firma questo capolavoro che scaccia via i fantasmi del passato, un album che racchiude alcune gemme che ormai neanche il più ottimista dei fan osava più sperare.

"From now on..." contiene 12 tracce più la cover di "Burn", tratta dal suo passato nei Deep Purple e cantata con tale vigore e classe da far impallidire anche l'interprete originale, Mr. Coverdale. In quest'album la sua voce splendida, dal timbro davvero unico, riconoscibile tra mille, è libera di esprimersi in tutta la sua poliedricità, impreziosendo con toni ora caldi e sognanti, ora acuti, acutissimi (ed è quì che non è davvero secondo a nessuno), ora grintosi, canzoni bellissime e diversissime fra loro, tenendo presente che si tratta di un album di Aor e hard rock cromato e che gli album di questo genere non sempre presentano grande varietà di stili al loro interno, mentre quì troviamo questo genere anni '80 riletto in chiave originale e sempre diversa.

Dalla partenza grintosa e frizzante di "Pickin' up the pieces" capiamo subito che la voce di Glenn è in grado di spadroneggiare tessendo melodie sempre azzeccate, ora accelerando con grinta, ora rallentando e regalando parti più dolci, perchè la sua voce sa graffiare e poi accarezzare il cuore come nessun'altra.

Proseguendo, troviamo la cadenzata "lay my body down", dall'ottimo lavoro di chitarra, e la stupenda "the only one" (inizio atmosferico da brivido, grazie al candore della sua voce, e improvvisa accelerata che conduce ad un refrain corale pauroso, da annali del hard rock melodico).

La seguente "why don't you stay" è un lento che si fregia di un ritornello dal coro ancora una volta azzeccatissimo, quasi gospel; la variegata "walkin' on the water" e l'hard rock più teso di "the liar" ci conducono ad "into the void", il pezzo più lungo (6:25 di durata) e sperimentale del disco. 

L'Aor dolce e ultra-melodico di "you where always there" è seguito dal lento blueseggiante "if you don't want me to", che nel finale, dopo un caldo solo di chitarra, presenta i vocalizzi unici tipici di Hughes.

A questo punto, e siamo alle tracce 10 e 11, arrivano due pezzi da annali dell'Aor: "devil in you" (dai riff e refrain che si stampano subito in testa) e soprattutto "homeland", un capolavoro in stile Van Halen - era Sammy Hagar - dalla struttura ascendente (come e forse meglio di "the only one") costruita su misura per condurre la voce di Glenn da una partenza rilassata ad un ritornello pazzesco, micidiale, grintoso, che nel finale si arrampica sempre più sù con un assolo stupendo e voce sempre più alta ed energica, il tutto sopra una base di tastiere e riff stoppati. Applausi.

Il finale dell'album è dedicato all'intimista title-track, che sembra volerci rassicurare sulla giusta strada presa "d'ora in avanti" da Glenn, e, come detto, a Burn.

Dopo questo album, Glenn Hughes non sbaglierà quasi più un colpo, inanellando una serie di album bellissimi e partecipando ad un'infinità di album altrui (segnalo, a mo' di esempio e per qualità, il bellisssimo Nostradamus di Niccolò Kotzev o i progetti Voodoo Hill e the Cage del nostro Dario Mollo, ma anche i 2 album con J.L.Turner).

Chiudo con un aneddoto: sono ligure e ho avuto modo di vedere in questi ultimi anni dal vivo Glenn Hughes 3 volte nella mia regione, in occasione di concerti piccoli, poco pubblicizzati, anche gratuiti, in locations improbabili: ebbene, la sua voce fa sempre paura per la bellezza e la potenza che esprime, ma soprattutto il suo amore per ciò che fa è stato confermato con prestazioni passionali e professionali e un amore per il pubblico che l'esigua accoglienza accordatagli dai miei conterranei "festivalieri" non meritavano...

Un vero Artista. Una voce dono degli Dei.

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