Glenn Hughes e Joe Lynn Turner. Per chi ama i Deep Purple questi due nomi non suonano nuovi, e vederli assieme non può che destare curiosità.

Andiamo con ordine. Glenn Hughes è stato uno degli artefici delle cosiddette formazioni Mark III e Mark IV dei Deep Purple ossia gli album "Burn", "Stormbringer" e "Come taste the band". Arrivato nella band come un semisconosciuto cantante-bassista, oggi la formazione David Coverdale - Glenn Hughes - Ritchie Blackmore - Jon Lord - Ian Paice verrebbe considerata un Dream Team. Il sodalizio vocale con Coverdale può essere considerato tra i migliori esempi di band a due voci mai esistiti: il primo così magnificamente blues, il secondo immensamente funky. Purtroppo Glenn, a quei tempi molto giovane, venne travolto dalla vita frenetica di una band già affermata a livello planetario e si perse un po' nella tossicodipendenza che costò tanto cara ai Deep Purple e al suo compianto chitarrista Tommy Bolin. Dopo lo scioglimento del gruppo nel 1976 Hughes vagò come uno zingaro, quasi sempre strafatto, da una band all'altra toccando persino i Black Sabbath ed i Whitesnake. Solo nell'ultimo quindicennio un Glenn Hughes ripulito ha restituito alla musica un talento cristallino con degli album solisti stratosferici che ben gli valgono il nomignolo di Voice of Rock.

Passiamo a Joe Lynn Turner. Per lui i fans dei Deep Purple non spendono altrettante parole al miele. La storia di Turner è intrecciata a doppio filo con quella del suo padrino Blackmore. Il geniale chitarrista, dopo aver cacciato il duo Gillan-Glover si porta nella band gli sconosciuti Coverdale-Hughes. Forse pensava di aver trovato qualcuno di più malleabile, ma il buon Ritchie aveva fatto male i conti. Difatti gli ego dei due vocalist (in competizione tra loro) nel giro di soli due album stravolgono il sound dei Deep Purple, sentire Stormbringer per credere (album comunque ottimo, per intenderci). Blackmore dà di matto nuovamente, ma stavolta tocca a lui far le valigie. Così fonda i Rainbow assieme ad un altro mito delle corde vocali: Ronnie James Dio. Ma andare d'accordo con il Man in Black non è impresa facile e così defenestrato sia Dio che il suo successore Bonnet, chiama nella band un fringuello come Turner. Joe è uno che si adatta, non fa baccano. In seguito si dirà che è l'ideale cagnolino di Ritchie. Con i Rainbow incide tre dischi, di buona fattura, ma troppo AOR (genere ideato per passare nelle radio americane in heavy rotation) per piacere ai fan dei Rainbow tanto meno a quelli dei Deep Purple. Potete quindi immaginarvi cosa questi abbiano pensato quando Blackmore, autentico terremoto, caccia di nuovo Ian Gillan dai nel frattempo riformatisi Deep Purple per sostituirlo proprio con Joe Lynn Turner. Apriti cielo! In effetti in quel momento Rainbow (gruppo fantoccio di Ritchie) e Deep Purple tendono a confondersi pericolosamente. Il prodotto è "Slaves and Masters" del 1990, album secondo me sottovalutato ma che viene inviso da critici e fans. Nonostante il fiasco del disco, il tour riscuote grande successo ma con l'approssimarsi del 25nnale della band la casa discografica impone il licenziamento di Turner ed il ritorno di Gillan. Di lì a poco Blackmore darà ancora di matto e lascerà la band definitivamente, ma questa è un'altra storia.

Dopo questa lunga premessa storica, arriviamo al disco in questione. Per tutto ciò già scritto, due pezzi dei Deep Purple che si incontrano non può non far aguzzare le orecchie. Ed in effetti il risultato è davvero buono. Penso grazie a Hughes ed al suo basso ricco di groove, il disco non scade nel temuto AOR dove Turner potrebbe giocare in casa, anzi sforna dei rockettoni che ti acchiappano dopo un paio di ascolti. Ovviamente Hughes eccelle rispetto al compagno, ma anche Turner ha una discreta voce che non mi è mai dispiaciuta e che mi fa tornare ai tempi di "King of Dreams". Il disco apre con "Devil's road", pezzo robuto e molto fine anni 70 (potrebbe esser benissimo dei Whitesnake). Le voci si intrecciano e si rincorrono (mamma che acuti di Hughes!). "You can't stop rock'n'roll" è della stessa pasta, ma già nel ritornello cominciano a far capolino quegli sprazzi di soul di cui la musica di Glenn è pregna. "Missed your name" ha un ritmo indiavolato, e ci si comincia a chiedere se il buon Turner non sia finito nella tana del leone. Ma a smentirmi arriva "Mistery of the heart", tipico pezzo AOR alla Turner. I suoi fans saranno contenti, è il tipico pezzo dove Joe può ammiccare alla platea femminile e difatti a Hughes lascia solo il basso. Ma alla fine anche questa canzone ci sta nel complesso del disco. Glenn replica con "Sister Midnight", che seppur cantato a due voci è un pezzo tipicamente alla Hughes con basso sleppato e tanto funky. Una delle tracce migliori del disco. Il disco prosegue sulla falsa riga: pezzi più funky per il buon Glenn, pezzi più melodici per Turner, e qualche robusto rockettone come punto d'incontro tra i due stili.

Visto il buon esito del disco, ed il successo del tour seguente (da cui verrà tratto un live), c'è stato un seguito chiamato ancora semplicemente "Hughes Turner Project 2". Dopodichè, da quel che mi è parso di capire dalle interviste, Hughes ha preferito chiudere l'esperienza in amicizia per proseguire con la propria carriera solista. Turner forse avrebbe proseguito con il "Project", ma tant'è. Forse è giusto così. L'idea era buona, ma credo che Turner e Hughes abbiano un background musicale molto differente e che l'unica cosa che li accomuni è l'aver fatto parte entrambi dei Deep Purple a quindici anni di distanza. 

Carico i commenti...  con calma