Dalla mia finestra vedo il mare. Una distesa di sabbia sottile prima, e il mare poi. Vedo un orto di qualche centinaia di metri quadrati e una vecchia decidere che per quei pomodori oggi pioverà. Vedo Agnese, più bella che mai dirigersi verso questa contadina per poi tornare indietro con un pugno di basilico e l'inverno tra le labbra. Ma l'inverno è ancora lontano. Le turniste addette alla catena alimentare nella calda stagione hanno da poco firmato l'armistizio e io mi sento benone. Depersonalizzato.
Il tramonto si accinge a soffocare un empireo tipicamente mediterraneo e le colline voltano le spalle. Qualcuno mi suggerisce che tanto domani sarà lo stesso, ed io, guardando non curante verso il sentiero, non so chi sia. Poco importa. Ha ragione.
Dalla mia finestra posso scorgere le note di un sassofono. Probabilmente il sassofono di Coltrane sulla sua "My Favourite Things". E intanto Agnese è una farfalla vestita di petali bianchi che a piedi nudi sulla sabbia riattraversa il mio orizzonte. E' disarmante. Nemmeno vent'anni, un volto disteso, fiabesco, e gli occhi di chi ne ha viste già parecchie, troppe.
Lei lo sa. Io sono pazzo di lei. E infondo anche lei lo è di me. Eppure Agnese ha paura, ed io non ho più vent'anni da troppo tempo secondo lei. Certo, ne ho meno di trecento, ma per Agnese anche cinque anni sarebbero un'eternità. E io non la biasimo. E non la biasimo giacché sino a qualche tempo fa, cinque anni le furono per davvero un'eternità. Forse più. Così l'aspetto. Fin quando il tempo, a gambe in spalla non comincerà a sgorgare a tambur battente persino dalle sue piccole mani.
Ma quella che vedo dalla mia finestra è una scena che non mi appartiene più. Una vita che non vivo, se non da spettatore. E se Agnese fosse realmente ancora là fuori a queste condizioni, oltre ad avere un movente che confermi lo stato delle cose e quindi un valido motivo per prendere atto della mia insanità mentale, probabilmente queste riflessioni non esisterebbero. La stessa Agnese non esisterebbe, e neppure io.
Sono alla mia finestra. Alle mie spalle suona un disco, un disco dei Glo-Worm che una donna mi regalò tanto tempo fa. E i Glo-Worm, in fondo, sono soltanto Pam Berry.
Pam Berry è un'istituzione. Una che ha suonato a dir poco in una decina di band. Una che ha partecipato attivamente, prestando quantomeno la voce, alla stesura di diversi dischi di buona fattura. La voce dei leggendari Black Tambourine, e dei Bright Coloured Lights dopo di loro. Leader degli Shapiros e dei Pines, "collaboratrice" dei Veronika Lake e via discorrendo. Insomma, un prolifico pilastro portante per quello che volgarmente la gente, me compreso, chiama indie pop.
Quando però ti capita tra le mani un disco come "Glimmer" (K Records, 1996), capisci subito che non è soltanto pop. La voce della Berry può far tornare il sole in una giornata di pioggia, così come con i Black Tambourine di "Black Car" poteva portare a comando quella gelida pioggia di malinconia necessaria in una meteorologicamente splendida giornata che di fatto poteva in tutta tranquillità essere una giornata di merda.
Si tratta di una raccolta di quattordici brani che narrano delle gesta del progetto nel corso degli anni. E, nonostante ciò, non sono percepibili particolari (e non) cali di sostanza, né a livello audio-qualitativo, né da punto di vista prettamente compositivo.
Una perfetta esecuzione di brani apparentemente banali, ma ricchi di sfumature e umanizzazioni. E' innegabile: quando ascolti questa roba, pare si manifesti una entità quasi tangibile d'innanzi a te, che può essere un vivo ricordo, così come una finestra immaginaria che riempia di calore e di colori una stanza divenuta insostenibilmente troppo glaciale, indipendentemente dai quaranta gradi o meno che possano esserci fuori. Una sorta di porta che affacci su di un universo parallelo.
Principalmente vige, o per lo meno è di spicco, il binomio voce-chitarra, ma non sono (per niente) rare le incursioni da parte della restante sezione ritmica, tastiere che suonano come xilofoni, archi, etc.
Da segnalare senz'altro il pugno di riuscitissime cover: da "Friday I'm in Love", passando per l'indimenticabile hit sixties "Downtown" e "Crazy Town", che sembra essere un omaggio ai Velocity Girl che fanno a parole loro un omaggio ai Black Tambourine.
Fortuna che questo disco l'ho pagato di tasca mia e che, in fondo, dalla mia finestra non ho mai visto che caterve di costruzioni in cemento armato e pile di merda in borghese.
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