Korpilombolo parte seconda


Li avevamo lasciati due anni fa con un album di debutto che fece gridare al miracolo molti, e che finì in vetta a molte classifiche di fine anno, italiane ed estere. Che fosse fuoco di paglia o disco valido sul lungo periodo sinceramente non è ancora facile dirlo. Personalmente per 6 mesi non ho sentito altro: troppo inebriante la miscela di chitarre fuzz, ritmiche ed immaginario afro-asiatico, costumi ultra kitsch e poco credibili storie di paganesimo antelitteram. A bocce ferme, e con l'occhio ben spalancato sulle porte dell'oggettività, non ho più avuto molta voglia di riascoltare il disco, sia per il breve e massiccio sovra ascolto compulsivo, sia perchè comunque le soluzioni ritmiche e le atmosfere del disco scadevano a volte nell'eccessivamente semplice. Beccato un groove e un giro di chitarra lo si riproponeva per 5 minuti.

Quindi con non poco scetticismo mi sono avvicinato a questo “Commune” seconda fatica del combo svedese. Difficile ripetersi in musica, soprattutto dopo un subitaneo successo, oltretutto suonando fondamentalmente “roba vecchia” ricombinata in maniera appena diversa dal solito. Il rischio del disco fotocopia era più che reale, insomma; e ad un ascolto distratto e veloce, “Commune” questo lascia. Una sensazione di già sentito, strutture similari, le urla alla luna della cantante, le chitarre fuzz and so on.

Ma incredibilmente, e dopo 5/6 ascolti, il disco rivela la sua vera forza. Quella primigenia della psichedelia, ossia la ripetizione che diventa mantra e che ti fa ricordare all'istante i brani, senza che questi abbiano particolari orpelli melodici. Impressionanti in tal senso le prime due tracce: “Talk To God” è una danza tribale, un sabba africano semplice quanto centrato; “Words” è forse il brano più interessante finora fatto dai Goat, una specie di garage etno-minimale scosso da entrate a gamba tesa della chitarra fuzz. L'andazzo generale, rispetto a “World Music” è forse proprio la volontà di focalizzarsi su un certo mood invece di spaziare fra registri musicali differenti. Attingendo ad una etnomusicologia da tre sette, direi India, tanta India, e un po' di Sahara mischiato col Sud Est Asiatico. Encomiabile anche la scelta di minutaggi in media ridotti (perfetto lo strumentale “To Travel The Path Unknown” e il mini raga di 3 minuti di “Hide From The Sun”). Non mancano brani adrenalinici come “The Light Within”, trotterellante viaggio sul Gange, dall'Himalaya a Nuova Delhi, e “Goatslaves”, pure troppo frenetica nella sua ritmica a base di percussioni e campanacci. Esperimento più riuscito rimane l'introduzione del cantato maschile insieme alle due deraglianti femmine, che in “Goatchild” apre orizzonti musicali interessanti.

In ultima analisi disco a cui mancano magari i pezzi scuotisinapsi del precedente, ma che, a dirla tutta, come suoni e atmosfere lo supera per coesione e resa alla lunga distanza. “Commune” è un disco compiuto dall'inizio alla fine. E non è poco.

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