E' l'atmosfera sognante della loro terra natia, l'Irlanda a riflettersi nelle loro spirali sonore di lancinante delicatezza. Incisioni chitarristiche intarsiate all'interno di un'atmosfera rarefatta in cui i colpi delle pelli e il ritmo scandito dal basso sono come il canto vitale del mare, che da ogni parte lambisce quella verde terra, l'Irlanda.
I primi tre vagiti della band, "The end of the beginning", "All is violent, all is bright" e "Far from refuge", in qualche modo avevano già descritto e ampliato le sonorità ora eteree, ora soffici, ora più propriamente rock che compongono la musica del trio irlandese. In particolare, le atmosfere musicali di "All is violent, all is bright" avevano colpito nel segno, lasciando ai posteri uno degli album più sognanti e malinconicamente vivi degli ultimi anni.
Così a distanza di un solo anno dal discusso e discutibile "Far from refuge", i tre irlandesi (Torsten e Niels Kinsella e Lloyd Hanney) tornano in studio per plasmare il quarto capitolo di una discografia destinata a crescere: nasce nel 2008 "God is an astronaut". La scelta del titolo, omonimo del monicker della band, sta a rinforzare l'idea di come la musica del gruppo sia di loro matrice, senza parallelismi improbabili. Infatti il post rock di questa band non trova punti di aggancio troppo diretti con altri gruppi odierni, ma si posiziona come una piccola isola di fertilità musicale all'interno di un panorama saturo delle stesse proposte.
Persi nel loro allucinogeno mondo, i tre componenti della band tornano con quest'album a descrivere in musica le emozioni grigie che percipiscono dal mondo. Già la copertina ci fa vedere un individuo solitario perso nelle fiamme, in un mondo oscuro popolato da ombre e paure ancestrali che trovano la loro massima sublimazione in "Shadows", delicata opener vissuta in bilico tra un inizio elettronico e il proseguimento di una chitarra che viagga a singhiozzi. Lo stesso uomo della copertina sente, capta (così come l'ascoltatore) i richiami della sua mente, echi lontani che la traccia "Echoes" ci mostra con potenza ridondante e melliflua, creando una dimensione altra. In questo continuo di sensazioni diafane, pronte a scomparire da un momento all'altro scompaiono anche le certezze. Scompare un po' tutto nella prepotente distorsione di "Snowfall" e riappare tutto come magicamente in "The first day of sun".
La "musica fiume" dei God is an astronaut, che si riversa in continuazione senza la voce, in quel susseguirsi di movimenti sonori sempre pronti a incastonarsi a meraviglia tra loro, trova un'oasi di pace nei cinuqe minuti di "Remaining light", dolce melodia di piano e richiami lontani che spezza l'andamento del disco. Un full lenght che si chiude nel migliore dei modi con il viaggio di una vita: "Loss" mi ha fatto pensare a tutti i clochards che vivono senza speranza sulle nostre strade, uomini alla deriva di un mondo in fiamme, uomini completamente in balia del loro destino, così come l'uomo in copertina, abbandonato a se stesso...
Il quarto disco della band irlandese non è un lavoro che può essere consigliato a tutti: coloro che non amano la musica strumentale ne possono benissimo stare alla larga, mentre per tutti quelli che amano sonorità atmosferiche e sognanti, mai banali e mai troppo complesse, l'omonimo album della band è probabilmente quello che da questo punto di vista soddisfa maggiormente l'ascoltatore, che da parte sua vorrà diverse volte, nuovamente, intraprendere questo viaggio. Alla ricerca dell'uomo, di se stesso e del tutto...
1. "Shadows" (5:11)
2. "Post Mortem" (5:52)
3. "Echoes" (5:10)
4. "Snowfall" (6:41)
5. "First Day Of Sun" (3:37)
6. "No Return" (7:04)
7. "Zodiac" (5:41)
8. "Remaining Light" (5:30)
9. "Shores Of Orion" (5:15)
10. "Loss" (10:51)
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