Gli irlandesi giungono al settimo album in studio e si ripresentano dopo il controverso "Origins", tentativo non del tutto riuscito di ampliare orizzonti e suoni nel tentativo di agglomerare lo stile della band, fino ad allora ben codificato su un classico post rock chitarristico con varie aperture a riff di matrice metal.

Il dio astronauta riavvolge il nastro e ritorna ai lavori pre "Origins", in particolare "Age of the Fifth Sun". Tentativi di innovazione riposti nell'angolo, idem l'esplorazione dei suoni nel lavoro in studio: il nuovo album dei GIAA è un dolce ritorno al passato. Formula più mangiucchiata, suoni di fatto già ascoltati, costruzioni sonore che nulla aggiungono alla loro carriera, ma almeno si torna a volare verso mondi inesplorati con 45 minuti di puro post rock classico. L'intro oscura di "Agneya" che si stempera improvvisamente, i riff rocciosi che chiudono "Vetus Memoria", il "progressive post rock" di intersezioni e cambiamenti di "Helios Erebus", l'ambient sfiorato di "Obscura Somnia" (il brano più "Origins" style), il ritorno alle sferzate metal in "Centralia". "Helios/Erebus" contiene diversi momenti interessanti, in cui la qualità si eleva per consegnare all'ascoltatore frammenti di un post rock che è ancora capace di lasciare qualche emozione.

L'ultimo parto della band irlandese è il classico "come back" alle proprie origini sonore. Il gruppo ha abbandonato la sperimentazione (peraltro poco riuscita) e si è riaffidato alla formula che lo ha reso famoso ad una sempre più larga schiera di sostenitori. Il sound è quello di sempre, abusato e stra-abusato nell'ampio mondo del post-rock, ma quantomeno si viaggia un po' con la mente e si torna a sognare con quelle atmosfere che i God Is An Astronaut ci avevano fatto scoprire con i lavori del passato.

Tre stelline e mezzo.

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