Il fenomeno "post rock" è esploso in maniera fragorosa nella seconda metà degli anni '90, partorendo i "grandi maestri". Davanti a tutti gli Slint (precedenti al periodo citato) e poi Mogwai, Explosions In The Sky, Sigur Ros, Godspeed You!Black Emperor, prima di una moltitudine informe di band clonate e riciclate all'inverosimile. Il post rock ha invaso come una marea gli ambienti del metal più sperimentale, l'elettronica, la psichedelia, fino a diventare una sorta di etichetta da attaccare a quei gruppi che ritengono di essere alternativi. Una proliferazione che ha quasi oscurato anche le cose buone che il genere ha partorito e di cui i God Is An Astronaut sono uno dei nomi più famosi e soprattutto più acclamati, anche da una critica che non ha mai digerito troppo il post rock.

Il ritorno sulla scena a tre anni di distanza da "Age Of The Fifth Sun", il sesto lavoro di una carriera ormai ben avviata. C'è ormai chi sostiene che i God come altri gruppi del genere siano superati, in quanto è il post rock stesso che ha esaurito la sua verve creativa. Ogni album uguale a se stesso e privo di particolari evoluzioni stilistiche. Proprio per questi motivi il lavoro che ci consegnano i 5 irlandesi sembra essere un qualcosa di diverso dalle precedenti produzioni: ci avevano abituato ad atmosfere sognanti giocate sulle incisioni chitarristiche e su improvvise esplosioni di potenza. "Origins" appare invece come l'album più riflessivo mai partorito dalla band, più di qualunque cosa fatta in precedenza. Una sorta di space rock "liquido" e annacquato da soluzioni simil elettroniche, che seppur lontane dall'essere abusate, ci mostrano un volto diverso dei GIAA. Un esempio lampante è il singolo "Reverse World" che dopo un soffuso inizio tastieristico si abbandona ad una melodia che lascia poco o nulla, prima di un riverbero chitarristico che non ha l'efficacia dei tempi che furono. Anche "Transmissions" sembra essere uno dei brani più sperimentali del lotto, ma proprio quando i nostri tentano di cambiare, il risultato finale non è dei migliori, con una song che si avvita su se stessa e che ci mostra la semplice ripetizione di espedienti sonori non particolarmente entusiasmanti.

C'è da dire però che non tutto è negativo e che il gruppo d'oltremanica dimostra comunque di avere il coraggio di addentrarsi in lidi che non gli appartengono: è il caso dell'ambient paradisiaco di "Autumn Song" e del ritmo sostenuto (per i loro canoni) di "Spiral Code". Da citare anche l'aggressività di "Calistoga" dove Pat O'Donnell (Fountainhead) presta i suoi vocalizzi, come farà anche per altri episodi ("Exit Dream", "Signal Rays", "Strange Steps", "Light Years From Home"). Eppure la sensazione generale è che sia improvvisamente calata la qualità del songwriting, con melodie più "catchy" che in passato, e uno sviluppo più lineare, già rintracciabile in un minutaggio "canonico".

"Origins" è un album indecifrabile sotto diversi punti di vista, ma forse è la prima opera che "rompe" con la concezione del post rock per come i GIAA ce l'avevano proposta fino ad oggi. Un lavoro che se da un lato ci mostra una certa tendenza all'innovazione, dall'altro ci dice che la band di Wicklow non sembra ancora possedere la maturità adatta. Un disco "di mezzo", che nel tentativo di virare coordinate, perde i punti di riferimento del passato. Come se i God Is An Astronaut si siano improvvisamente smarriti nel mondo indefinito che loro stessi hanno creato.

1. "The Last March" (4:44)
2. "Calistoga" (4:31)
3. "ReverseWorld" (5:11)
4. "Transmissions" (4:05)
5. "Weightless" (4:13)
6. "Exit Dream" (3:31)
7. "Signal Rays" (4:07)
8. "Autumn Song" (3:48)
9. "Spiral Code" (4:14)
10. "Strange Steps" (4:57)
11. "Red Moon Lagoon" (4:46)
12. "Light Years From Home" (5:08)

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