I God rappresentano uno dei punti supremi dell'avanguardia rock degli ultimi decenni, un viluppo inestricabile di armonie & dissonanze associate alla fusione radicale dei tracciati metal e grind con il jazz e con il funk, prossime agli indizi disseminati da terroristi sonori della stregua di Pain Killer e Naked City. Tre sassofonisti, tre bassisti, due batteristi e un chitarrista fluttuanti tra policromie crossover libere da catalogazioni ed immerse in una sequenza di spirali ritmiche che spaziano nella mesosfera del rumore per celebrare una nuova liturgia nel tempio dei cambiamenti.

Il loro primo album in studio (dopo il live "Loco") partorito nel 1992 raggiunge vertiginosamente la vetta del multiforme linguaggio della corruzione armonica con lucide cifre di trasversalità jazz quasi ascetica (Coltrane e Ayler in primis), miscelando con meraviglia avveniristica il nuovo con gli antefatti sperimentali da altre epoche (Henry Cow e Pop Group), aggiungendo frazioni di musica post-industriale (il pesante fardello degli Slab), azzardando incroci malefici tra covate di fiati (sax soprano-tenore-baritono) e scrosci ritmici di bassi e percussioni sparati diametralmente da tutte le direzioni. I flutti tellurici di "Pretty" aprono il disco con un segmento sonoro intrecciato con maestria da chitarre taglienti, sassofoni spasmodicamente frastornati in angoli acuti e una voce scabrosa figlia, per chi ne ha memoria, dei percorsi aggrovigliati che tramandano il mito di Mark Stewart.

La blasfema processione dei brani passa attraverso la nera potenza drammatica dell'incedere doom metal di "Fucked", le sbandate a metà tra l'hard boiled e i Tuxedo Moon che infestano "Return to Hell", il feedback delle chitarre di Justin Broadrick che appiccano il fuoco al circolo vizioso di " Soul Fire", le risalite verticali di "Hate Meditation" sulle ali di deraglianti rapsodie per piano ed ancie con la voce rappata di Kevin Martin.

La seconda parte del disco preferisce i tempi lunghi della suite decifrata in sequenze strazianti, quelle lente e progressive di "Lord I'm on my Way", infiammate dagli interventi del sax alto dell'ospite John Zorn o l'interminabile (16 minuti) viaggio psycotico di "Love", che si rivela un feroce campionario di musica senza confini: jazz, funk, metal, noise si stuprano a vicenda spargendo fiotti spermatici infestati da virus sconosciuti.  La grandiosa sinfonia di campane ("Black Jesus") che chiude l'album, vede il gobbo di Notre-Dame saltare freneticamente da una fune all'altra mentre attorno strepita in feedback la folla inferocita.

Una terrificante creatura a nove teste, che usa con esperienza e fantasia malvagia un ampio spettro di strumenti (tra cui il didgeridoo), composta di stravaganti figure underground tra cui Kevin Martin (sax tenore, voce - Techno Animal), Tim Hogdkinson (sax alto, clarinetto- Henry Cow e Momes), Steve Blake (sax alto, tenore, baritono- B Shoops for the Poor), Scott Kiehl (batteria - Slab), Justin Broadrick (chitarre- Godflesh), John Edwards (double bass- B Shoops for the Poor) Lou Ciccotteli (drum machine - Slab) Dave Cochrane (basso - Head of David) e una manciata di ospiti illustri come John Zorn al sax alto e Peter Kraut (ex Alboth) al piano.

Che dire altro... capolavoro?

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