Giornata plumbea: nuvole basse si addensano sulla cresta montuosa in lontananza, impedendomi la visione di tutte quelle cime che ho più volte raggiunto nella mia esistenza "montanara".

Questo diffuso grigiore intorno a me, non solo dal punto di vista meteorologico, mi ha ricordato la copertina di "Songs of Love and Hate". Giusto quindi occuparsi ancora una volta della creatura Godflesh di Justin Broadrick, uno dei personaggi più influenti e rispettati degli ultimi trent'anni per quanto concerne la musica pesante.

Siamo nel Settembre del 1996; cronologicamente è il quarto disco della band (il quinto se si considera anche l'omonimo EP d'esordio) e ci sono delle importanti novità. Justin ha voglia di sperimentare, ha voglia di aggiungere ancora altri elementi al già dirompente ed ipnotico suono del passato. Di certo non può abbandonare l'Industrial Metal che rimane anche in questo album una delle caratteristiche in maggior evidenza nell'arco delle undici canzoni che vanno a riempire l'ora di ascolto.

Per prima cosa viene accantonata la drum machine, rimpiazzata da un batterista vero e proprio; viene così ingaggiato Bryan Mantia, che l'anno dopo entrerà a far parte della congrega di pazzi denominata Primus (si si quelli di mio cugggino Les!!). Scaturisce un suono non meno dirompente ma di certo più tradizionale; più umano e fluido per usare due termini che calzano a pennello. Non si tratta di un lavoro facile; stiamo sempre parlando dei Godflesh e di un muro sonoro spropositato, impenetrabile grazie al lavoro combinato di chitarra e basso dall'incedere straziante, pesantissimo.

Altra importante novità è la considerevole aggiunta di elementi Dub, Hip Hop, Drum and Bass; Justin ha voglia di rischiare, vuole spingersi ancora oltre con l'alienazione sonora ed il risultato che ne viene fuori è inquietante. Disco che va ascoltato ad un volume "eccessivo" per entrare nel giusto feeling con le canzoni che lo compongono.

Si parte con i rumori siderurgici di "Wake": il basso inizia a tessere le sue trame ipnotiche, chiuse, serrate. Subito dopo entrano la voce e la chitarra di Justin e sono dolori. Bryan garantisce quella spinta propellente molto più lineare, scorrevole che in passato: quattro e poco più minuti di una potenza micidiale. Si prosegue con "Sterile Prophet" ei suoi ritmi ancora più serrati; il trio (anche se sembrano molti di più da tanto rumorismo) costruisce un muro sonoro di proporzioni non quantificabili, inventandosi un finale drammatico con un riff ripetuto all'infinito che mi manda KO per l'ennesima volta.

Mollano la presa per qualche istante con "Circle of Shit": l'andamento del brano risulta essere molto più rallentato ma non per questo meno efficace, con dei giri di basso giganteschi ed una chitarra iper-distorta. Sono gli otto minuti di "Gift From Heaven" a dare la giusta misura della svolta della band. Un mid-tempo tentacolare, con il cantato di Justin che in alcuni momenti assume sfumature pulite, per poi ripiombare nel semi-growl con la parola empty ripetuta all'infinito per un risultato asfissiante, mantrico che destabilizza. La chiusura di questa vera e propria via crucis uditiva è per l'ennesima volta affidata al rumore di una chitarra che va infine a spegnersi. E' il brano che preferisco, alla faccia del mio apparato uditivo in netta fase calante.

"Angel Domain" è una fucilata senza pietà alcuna; liberano la loro indole perversa costruendo un wall of sound angosciante che si riallaccia al passato dei primi anni novanta.

Massimo dei voti e massimo rispetto per Justin, un grandissimo...ALMOST HEAVEN...

Ad Maiora.

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