“Streetcleaner” non è semplicemente un capolavoro di industrial metal, uno dei capitoli più influenti della musica estrema di sempre, il perfetto vademecum di come questa musica debba essere concepita, composta ed eseguita. “Streetcleaner” è un'opera d'arte, come un romanzo di Kafka, un film di Cronemberg, un quadro di Giger.

Alla pari di questi artisti, nella loro imperfezione come nella loro innegabile incisività, l'entità Godflesh ci consegna una rappresentazione metaforica della realtà, e “Streetcleaner” è un affresco truce, e a maggior ragione inquietante proprio perché realistico, di noi e della realtà che viviamo. “Vi riproducete come topi, non guardatevi indietro, eravate morti fin dall'inizio”: questa è l'agghiacciante sentenza che apre la seduta psicoanalitica a cui è sottoposta l'umanità intera, un viaggio squallido e sgradevole, proprio come la realtà che intende descrivere. Un viaggio che si inerpica per labirinti kafkiani, incubi orwelliani, minacce cronembergiane, paesaggi degni del Giger più perverso. Nessuna concessione alla speranza, nessun futuro migliore all'orizzonte. Lontano anni luce dalla goliardia e dal sarcasmo dei colleghi Ministry, Justin Broadrick preferisce attingere dal mondo ossessivo ed alienato di Swans e Killing Joke, naturalmente senza dimenticare le reminiscenze grindcore ereditate dai tempi dei Napalm Death.

Accompagnato dal bassista B. Christian Green, ed affidate interamente le ritmiche alle macchine, Broadrick è finalmente libero di esprimere il proprio ego ed abbandonarsi totalmente alle sue ossessioni. Laddove il credo industrial impone l'uso massiccio di campionamenti e punta ad una stilizzazione della musica suonata, Broadrick conserva l'amore per il suo strumento, il suo approccio rimane fisico, e la sua chitarra, fucina di alienazione e ossessione, è paradossalmente un qualcosa in continua evoluzione: fra paranoici riff e vorticosi turbini di feedback, fra ripetizioni ossessive e impercettibili variazioni di temi, l'arte visionaria ed espressionistica di Broadrick è quella di un Hendrix idealmente impiegato in una catena di montaggio, di un Bach che sbuca una strada con un martello pneumatico, di un Van Gogh costretto ad utilizzare barattoli di ruggine per i propri dipinti. Broadrick, dietrologie a parte, è il vero padre del post-metal, e a lui devono molto se non tutto band come Tool e Isis. Ma il suo merito maggiore è quello di aver elevato un genere così fisico e pragmatico come il metal a visione artistica e rappresentazione metaforica della realtà. Il pulsare disarticolato della drum-machine richiama i gesti ripetuti, la frenesia della quotidianità, l'oggettivizzazione della vita, oramai spogliata da ogni emotività e fondamento spirituale. Le bordate di basso sono lo scricchiolio degli ingranaggi e dei pistoni della grande Macchina. La chitarra è un rubinetto da cui sgorgano fiumi di melma e mondezza, la corruzione, l'avidità, l'egoismo: gli echi e i riverberi dipingono un mondo confuso e difficilmente afferrabile, uno sfocato brulicare di cui si può comprendere il perché delle singoli parti, ma non, per l'eccessiva parcellizzazione dei ruoli e dei contesti, il senso d'insieme.

Il grugnito becero e deformato di Broadrick è indiscriminatamente la voce di un operaio prigioniero in una catena di montaggio, di un colletto bianco che si consuma gli occhi davanti ad un PC, di un magnate della finanza che misura il mondo in termini di speculazioni. È il grido silenzioso di tutte quelle piccole formiche che compongono la società e trovano la loro ragion d'essere nell'imperativo “produrre-consumare” (“acquisto, quindi esisto”). È il lamento e la rabbia inconsapevole di orde di dannati distribuiti razionalmente nei diversi gironi infernali/sociali di questo mondo, tutti a scontare la medesima pena: la disumanizzazione. Se nella prima metà dell'album le song sono sorrette da riff massicci e ritmiche serrate e, fra una divagazione e l'altra, riescono a mantenere un formato simil-canzone, ad un certo punto accade qualcosa, il sistema impazzisce ed implode in se stesso: le composizioni si de-strutturano e si fondono fra loro, la chitarra diviene rarefatta, le voci si annullano in grida straziate e sconnesse richieste d'aiuto. È a questo punto che il freddo battito delle macchine diviene l'unico garante dell'ordine in un'anarchia di rumori e fischi: esse, le macchine, intese come Sistema, acquisiscono una dimensione spirituale, si ergono a nuova divinità (Godflesh) di un mondo del tutto svuotato di valori e di linfa vitale/emozionale, e ad esse si piega l'umanità intera, che marcia all'unisono, schiava di un meccanismo, economico e sociale, oramai impazzito e fuori da ogni controllo. Solo a tratti si possono rinvenire tracce di umanità, stralci di disperata decadenza che andranno ad anticipare le atmosfere emozionali e post-core del progetto Jesu, attuale incarnazione dell'arte di Broadrick.

I Godflesh non hanno l'auto-compiacenza e l'appeal commerciale di altre band appartenenti alla stessa scena, e per questo potrebbero anche non piacere. Hanno limiti evidenti i Godflesh, esecutivi come compositivi, e la loro musica è sovente dispersiva ed includente, ricca di sbavature e priva di quel fascino monumentale e catastrofico che caratterizza i lavori dei cugini Scorn. Difficilmente c'imbatteremo in un songwriting brillante o trovate geniali, e la produzione scarna ed essenziale di certo non aiuta. Del resto i Godflesh non sono dei ruffiani, la loro forza sta tutta nella capacità descrittiva, nel linguaggio che forgiano, nel saper esprimere suggestioni: spesso non compresi dalle masse, fra alti e bassi, continueranno con coerenza ed onestà la loro battaglia nell'oscurità. Ma ieri come oggi il loro messaggio, come la loro musica, rimane sorprendentemente attuale, e “Streetcleaner”, il loro primo full-lenght, a quasi vent'anni di distanza dal suo concepimento, è ancora una vera legnata nei denti.

I Godflesh non rappresentano il disagio di una generazione. I Godflesh incarnano il dramma dell'umanità intera. E forse per questo danno davvero fastidio.

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