Come fai a stroncare Alison Goldfrapp, Dio solo lo sa (e va bene, c'è pure l'altro tizio a suonare con lei, ma chi se ne ricorda il nome?). Ha quegli occhioni, quel vocione stravolgente e quell'ego strabordante da diva, che finisci per apprezzarne anche i passi falsi, anche quelle canzonette talmente scialbe che nemmeno Kylie Minogue. E così si cataloga definitivamente quell'entusiastico brivido in fondo al cuore di "Felt Mountain" (1999), l'album che consacrò i Goldfrapp, gettandoli subito nelle maglie del potere mediatico, delle pailettes e dello strass.
C'era questa ragazza cerbiattesca, un po' eccentrica, ma sicuramente casta, nelle sue tenute bucoliche, nei suoi riccioli biondi e nella sua voce straordinaria, capace di donare al mondo quelle nove canzoni che misero un sigillo alla fine del ventesimo secolo, realizzando un disco che non ha mai smesso di far sciogliere anche l'ascoltatore più scettico. Poi, rieccola, completamente trasformata: sexy, carnivora, sessuale più che sensuale, ma sempre e comunque elegantissima e camaleontica, capace ancora di canzoni belle e di grande impatto ("Black Cherry", "Strict Machine", "Twist", "Koko", "Number 1"). Due album, i successivi ("Black Cherry" del 2003 e "Supernature" del 2005) che si bagnano d'elettronica, impulsi anni '80, sferragliate industrial, motivetti allegri, orgasmi e trasognate immersioni nel buio della notte. Alison si riscopre una donna in preda agli ormoni, destinata a dominare gli uomini con lo sguardo, senza la necessità di mostrare metri di carne: lei ha tutti in pugno, anche quando canta canzonette senza spessore.
Ecco cosa la differenzia dalle altre: la classe. Perchè, anche i musicofili che non sono a conoscenza dei primi Goldfrapp, e che incappano nella nuova trasformazione, ne rimangono incantati. Anche quando le canzoni si fanno pericolosamente trash ("Lovely 2CU" o "Satin Chic", entrambe da "Supernature", ne sono un ottimo esempio) e irritanti, lei ci mette sempre quella cosa che manca a molti artisti: l'eleganza. Perchè prima di essere una cantante, Alison Goldfrapp è, innanzitutto, una bravissima performer, una capace di recitare, mettersi in gioco e adattare la sua voce a qualsiasi sensazione.
L'ha dimostrato l'ennesimo cambiamento, il successivo e intenso "The Seventh Tree" (2008), capace di rifiutare l'ondata electro, per rituffarsi nelle sensazioni bucoliche ed eteree, viaggiando anche su binari folk. E ora? Eccolo qua il primo, vero, passo falso del duo inglese: "Head First", un disco che sembra una raccolta di scarti dai precedenti album.
Ma andiamo con ordine. Sono solo canzonette, che falliscono dal primo ascolto. Torna l'electro, torna il mood nostalgico d'altri tempi, tornano i sospiri e gli ululati alla luna, le movenze sculettanti, il ritorno dell'adolescenza. Torna tutto questo, ma a confronto, persino un album carino, ma piccolo, come "Supernature", sembra un disco enorme.
Che cosa dovrebbe suscitare un singolo-tormentone come l'orripilante "Rocket"? Simpatica al primo ascolto, innocua al secondo e insopportabile dal terzo in poi. No, questa non è Alison (e, infatti, quando capitò in radio non mi capacitai del fatto che era targata Goldfrapp). No, questa non è quella ragazza con gli occhi blu e i riccoli d'oro. Quella che se anche voleva "cavalcare un cavallo bianco", che ti diceva di volere il sesso più feroce e di voler essere consumata e baciata, finivi per crederla sempre bella, innocente e intoccabile. No, questa non è lei. Questo sembra un disco di b-sides di Lady Gaga, e già qui siamo freschi freschi.
"Alive", altro singolo, è già più carina, ma scivola via senza suscitare alcun effetto, finendo nel dimenticatoio. Già che l'ho ascoltata diverse volte, non riesco a ricordarmene il ritornello o, almeno, il ritmo. Ricordo solo il video musicale, quello sì veramente bello: lei, profetica annunciatrice della disco music, riesce a scombussolare una messa nera, facendo ballare gli adepti. Loro si divertono, tu no, perchè poi arrivano gli altri pezzi, uno peggio dell'altro: da "I Wanna Life" (Alexia, per un pezzo del genere, ucciderebbe sua madre) a "Hunt", che è interessante, ma frigida. Niente. Non succede dannatamente niente.
E poi. Eccolo! Lo spiraglio di luce! L'illuminazione sulla via di Damasco. Eccolo, l'ultimo pezzo: "Voicething". Intro alla Laurie Anderson- era "Big Science"- e gran crescendo di voci. Eccolo. Eccolo il fremito. No. è solo l'inizio di un'ipotetica grande canzone che non porta da nessuna parte.
Duole dirlo, ma "Head First" è proprio inutile. Non funziona nemmeno come frisbee, tanto è brutta la copertina.
Chi se lo aspettava, da due occhi come quelli?
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