I Goldfrapp tornano a farsi sentire a due anni di distanza da "The Seventh Tree" e ancora una volta compiono una virata, addentrandosi in nuovi territori musicali. Abbandonano infatti gli arrangiamenti ricchi e (pseudo)acustici del precedente album, per compiere una scelta stilistica più precisa e omogenea, persino più minimalistica.
Con "Head First" sembrano infatti sviluppare l'opera di revival anni 80 da loro già compiuta nell'album "Supernature", in brani come "Fly me away" e "Ooh la la". Qui, tuttavia, ciò che precedentemente era stato solo un intervallo in un album impregnato di chill-out e di atmosfere da club di lusso, diventa la norma. Difficilmente potremmo fare una recensione track to track di quest'opera, infatti, dal momento che il sound risulta da subito molto omogeneo. Non per questo, però, dobbiamo aspettarci una sequela di canzoni uguali l'una all'altra. Al contrario, pur se gli arrangiamenti si affidano quasi totalmente all'elettronica, quest'album vede un avvicendarsi di melodie diverse e ben cesellate.
Ma è la scelta degli arrangiamenti a risaltare subito all'orecchio. Pare infatti di trovarsi di fronte a una sorta di amalgama, riuscitissima, di synthpop anni 80, che cita qua e là la colonna sonora di "Xanadu", film trascurabile di Olivia Newton John, quella di "Lady Hawke" fino a toccare il celebre tema de "La storia infinita". La direzione intrapresa dai Goldfrapp consiste infatti nel preciso revival di un pop decisamente sintetico, senza per questo essere asettico e meccanico. Al contrario Alison e il suo compare riescono a catturare gli elementi più sognanti e fantasiosi che hanno impregnato l'estetica degli anni 80, soprattutto cinematografica. Un'operazione di revival, abbiamo detto, che in quanto tale esprime anche una certa nostalgia. Certi suoni elettronici, infatti, sembrano essere stati estratti dalle musiche di sottofondo di un videogioco per Atari o Commodore 64, senza tuttavia operare un'immersione totale come nel caso dei Crystal Castles.
Fra i brani, segnaliamo l'intrigante singolo di lancio "Rocket". Una canzone dalla struttura molto semplice e che colpisce per la sua immediata orecchiabilità, sorretta fra l'altro da un video coloratissimo e notevolmente simpatico. Sottolineiamo anche l'incalzante Believer o la più rilassata e ariosa "Dreaming" e la conclusiva "Voicething", vagamente lisergica e memore dei trascorsi in ambito chill-out della band. La qualità dei brani rimane sempre comunque molto alta, senza mai presentare punti morti o canzoni riempitive. L'album consta infatti soltanto di 9 tracce. Una selezione oculata che non lascia minimamente l'amaro in bocca. Al termine dell'ascolto ci si scopre infatti soddisfatti, consci di avere tra le mani un'opera compiuta, senza sbavature o lacune.
Non vi è poi bisogno di dilungarsi troppo a proposito della tecnica vocale di Alison Goldfrapp. Ci presenta infatti il suo solito repertorio di miagolii e sospiri, che la sua voce vellutata e volutamente snob riesce a tratteggiare sempre alla perfezione con la vanità che rappresenta la sua dote principale. Una vanità che ammicca persino dalla copertina, semplice, quasi semplicistica, ma sempre sorretta da un sex appeal raffinato e distaccato.
In conclusione, ho trovato quest'album l'ennesima prova di bravura dei Goldfrapp, persino meglio congeniato del precedente "The Seventh Tree" o del più ruffiano "Supernature". I Goldfrapp dimostrano di non avere assolutamente prosciugato la loro voglia di sperimentare, pur rimescolando ambiti già ampiamente esplorati da altri artisti, come appunto quello del revival anni 80, che da qualche anno a questa parte, soprattutto da "Confessions on a dance floor" di Madonna, non manca di influenzare sempre di più la scena musicale internazionale.
Carico i commenti... con calma