Eclettico, spaziale, tecnico, jazzato… sono solo alcuni degli attributi che possono descrivere questo "Angel’s Egg", secondo capitolo della trilogia “Radio Gnome Invisibile” dei Gong.
I piccoli folletti verdi guidati da Daevid Allen creano un’opera prog-jazz psichedelica che ha poco da invidiare al precedente lavoro, e primo capitolo della trilogia, “Flying Teapot”. Insieme al successivo “You”, i Gong piazzano un tris che in un certo ambito art rock, troverebbe eguali solo nei Can (Tago Mago – Ege Bamyasi – Future Days) o nei King Crimson (Lark’s tongue in Aspic - Starless and bible black - Red).
Diversi fattori contribuiscono al loro successo, dalle loro fantastiche doti esecutive a quelle compositive, dal loro approccio stilistico al loro surrealismo, ma sarebbe bene ricordarli anche e soprattutto per il loro sense of fun. Si può benissimo affermare che ogni loro passo nel produrre e nel registrare un disco sia stato preso con allegria, e difatti l’ascolto e l’analisi dei loro testi non può che divertire. Ed è proprio questa forte esalazione di gioia e libertà a fare grande quest’album. Quasi magicamente, tutto può sembrare migliore e ottimista quando si mette su questa musica.
Nel disco, dato alla luce nel 1973, troviamo l’aspra chitarra di un giovane Steve Hillage, le percussioni jazzate del batterista Pierre Moerlen, la psichedelia dei synth vitali di Tim Blake e dei sussurri spaziali di Gilly Smyth, il pulsante basso di Mike Howlett, gli audaci voli dei fiati di Didier Malherbe e, ovviamente, le pazze liriche e la caratteristica voce di quel soggettone di Daevid Allen.
A conti fatti, quest’album appare come uno dei massimi esempi sia del Canterbury Rock che dello space rock, una tramortente combinazione; ci sono effetti spaziali da studio combinati ad un jazz che divaga tra il funk e il sinfonico, ci sono i Pink Floyd del periodo Meddle, c’è l’approccio lisergico tipico delle jam dei Grateful Dead, c’è la bizzarria barrettiana, non solo nelle liriche, c’è l’absolutely free zappiano, e tutto senza suonare come nessuno di questi gruppi. E nonostante il marchio di fabbrica hippie/mattoide possa apparire un po’ datato, tutto il percorso si fa forte di una bizzarra attualità.
Già dall’inizio della prima traccia “Other side of the sky” possiamo sentirci in balia di un fun trip, che diventa sempre più piacevole man mano che ci avventuriamo insieme a Zero The Hero. Siamo subito preda di un canto filo-turco, seguito dai sibili di Smyth, che insieme alla sezione ritmica ne fanno uno dei masterpiece dell’album. Si arriva quindi in India con “Sold to the Highest Buddha”, e viene fuori il lato più straniato di Allen, che si diletta agiatamente in questa stralunata freak-song, prima di lasciar posto ad una coda free.
“Castle Clouds” è un breve ponte di distorsioni spaziali, che introduce a quello che certamente è uno dei momenti culmine, “Prostitute Poem”, un pezzo pieno di innuendo sessuali, echi spettrali e gemiti nel cantato, costruito su di un valzer che rimanda a caffè parigini, finchè non arriva di striscio un getto musicale quasi in stile orientaleggiante. “Givin my love to you” ci fa proseguire nel trip, portandoci in qualche pub inglese, a bere e cantare con gli amici, accompagnati da musica di evidente stampo Gracious. La mellow song “Selene”, introdotta da xilofoni, è un’invocazione mantrica che sfuma nel finale; dopo l’intermezzo di “Flute Salad”, un atmosferico solo al flauto di Malherbe, si perviene a “Oily Way”, ed è proprio qui che sembra di essere all’interno di quella teiera volante, sbattuti qua e là dal suo ondeggiare, in un connubio di jazz, prog e space fuorviante. In coda a questa, “Outer Temple 1” e “Inner temple 2” non sono altro che un rallentamento in volo, arabica la prima, ancor più esotica la seconda, con un solo al sax e un gliss chitarristico di Allen in primo piano.
Le successive “Percolations” e “Love i show Y make it” sembrano quasi venir fuori da "Ummagumma": la prima per gong e lamenti vocali, la seconda per vibrafono, marimbe e nenia alleniana velocizzata nel finale, non possono non ricordare il “Grant Vizier’s Garden” masoniano. “I never glid before”, altro masterpiece del disco, forse il più “progressivo”, dalle sonorità quasi balinesi, ha nel solo di un Hillage in stato di grazia il momento migliore; groove, melodia e coro fanno il resto. Basilare.
Il caos finale ci introduce al pezzo conclusivo, “Eat that phonebook coda”, immaginativa e jazzata, che forse è l’episodio meno riuscito dell’album… ma in fin dei conti sono quisquilie, perché un viaggio simile è esperienza indimenticabile e quindi consigliatissima.
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