Il 18 febbraio dell’anno 1763 dell’era volgare, entrando il sole nella costellazione dei Pesci, fui trasportato in cielo, come sanno tutti i miei amici. Voltaire
Questa recensione vuol essere un invito alla (ri)scoperta dei Gong, band leggendaria, vero e proprio must per qualunque appassionato dell’età d’oro del rock.
Prima di tutto, chi sono i Gong ?
Come è stato detto dal loro leader, Daevid Allen, “una band che troppe poche persone amano troppo” . Un gruppo fortemente anticommerciale, dunque, anticonformista, innovativo, votato alla sperimentazione incondizionata; una musica libera, volutamente fine a se stessa, da cui ci si può aspettare di tutto e il contrario di tutto e la cui descrizione - ahimè - richiede uno sterminato numero di aggettivi.
Camembert Electrique, del 1971, realizzato dopo una serie di esperimenti trascurabili, è l’album ideale per avvicinarsi ai Gong. Infatti, pur non raggiungendo l’opulenza e la varietà dei lavori successivi, nati da una maggiore maturità musicale, è una sorta di manifesto ed antipasto della trilogia Radio Gnome Invisible che renderà questi fricchettoni cronici una band di culto. L’album novera, in sostanza, sette perle di space rock più un intro, un intermezzo e un outro parlati, il tutto testimonianza della pazzia totale che s’era impossessata di queste menti deviate. Ma passiamo a "Radio Gnome", una voce distorta che sembra annunciare una trasmissione radio dal pianeta Gong. Non è uno scherzo, perché la seconda traccia, "You can’ t kill me", presenta prepotentemente il sound gonghiano: un calderone di Canterbury e psichedelia, jazz e rock, veloce, vibrante, allucinato. La ritmica è rapida e incalzante, i riff di chitarra acidissimi, il sax inafferrabile nei suoi svolazzi. E’ la base ideale per la voce di Allen, i gemiti di Gilly Smith e una serie di testi a dir poco deliranti. Si prosegue con "I’ve bin stone before", parodia straziante di una melodia classica, e con "Mister Long Shanks", che parte come una canzonetta frenetica per implodere in un’atmosfera morbidissima e lisergica. Un attimo di vuoto cosmico, reso dal basso immateriale di Christian Tritsch, che viene però stravolto dall’attacco di "Dynamite/I am your animal", velocissima, martellante, continuo divenire space–rock che culmina in un crescendo finale. A chiudere la prima parte dell’album "Wet Cheese Delirium" e "Squeezing Sponges Over Policemen's Heads", che costituiscono un inquietante interludio parlato, con un’altra voce a ripetere: “tu veux camembert.. ?”.
La seconda parte dell’album si apre con "Fohat Digs Holes in the Space". E’ un’interminabile cavalcata nello spazio, scandita dagli accordi di synth e dalla ritmica jazz di Pip Pyle, che si dissolve per far spazio alla canzone vera e propria, dal groove travolgente, con un solo di sax di Malherbe semplicemente micidiale. Segue Tried so Hard, splendida ballata dal sapore freak, marcata da un’ atmosfera sognante cui ben si addice il flauto di Malherbe - sì, suona pure il flauto, e allora? –.
La traccia successiva, "Tropical Fish/Selene", è una suite varia e ben dilatata, fatta di temi assai diversi, intervallati da gemiti e dissonanze, che si conclude con due brevi citazioni di "You can’ t kill me" e "Dynamite". "Gnome the Second", ennesima traccia “parlata”, annuncia la fine delle trasmissioni.
Questa è la "Inspiring total madness" dei primi Gong, quaranta minuti di divertimento puro che giungono come una boccata d’aria in una vita sempre più monotona e sempre meno sorprendente. Difficile tornare sulla terra dopo questo viaggio nello spazio e nella musica: qualcuno non l’ha mai fatto, e ha scelto di rimanere in orbita in attesa della prima teiera volante per il pianeta Gong.
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