Sembra di ritornare nelle riserve indiane, quelle in cui si respira spiritualità, quelle dei grandi capi, dell’ uomo della medicina, quella dell’ uomo della saggezza. Inebriato dal fumo del proprio calumet della pace, con voce roca quanto basta, segno distintivo di sofferenza e come sovrastarla, ci racconta di vivere in un qualche deserto mojave o qualche riserva cherokee. Lontani da tutto ciò che può rappresentare vita frenetica da cittadini di metropoli, lontani dal consumismo, accettando solo quello che serve a sopravvivere fisicamente e mentalmente.

Opera molto riflessiva e intima, cupa nei suoni, atmosfere delicate, percussioni, ritmi blandi da tribù, eppure tutto ben amalgamato nelle 10 tracce che compongono l’ EP, il tutto suona fluido e libero da forzature per allungarlo (dura in effetti solo 24 minuti). La voce di Sumach è sempre cupa, roca, divorata dal fumo e dall’ alcool, sempre pronta ad una sorta di lamentio – fattanza a decretare mali e non mali del mondo. Che dire: si fa ascoltare bene e apre ad una sorta di new trip hop mischiato a dub. A me non dispiace.

Voto: 7

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