Il cerchio si chiude qui: tutto ebbe inizio nel 1966 con il folk acustico e disadorno, con un semplice quanto geniale inno da menestrello vagabondo, "Early Morning Rain"; quel menestrello, disco dopo disco, capolavoro dopo capolavoro, aveva continuato ad evolversi gradualmente: un vulcano di idee, un cantautore estremamente prolifico, un genio della melodia, capace di scrivere canzoni semplici, popolari senza mai scadere nella banalità, un paroliere eclettico, attento sia ai temi personali che a quelli più sociali ed impegnati. Gordon Lightfoot da Orilia, cittadina dell'Ontario non lontano da Toronto ha vissuto dieci anni da autentica leggenda, molti artisti assai più conosciuti e celebrati di lui non riuscirebbero a realizzare nulla di vagamente simile neanche in cento anni di carriera. Prima o poi questo formidabile ciclo doveva finire, nel 1976 manca veramente poco al ritorno di Gordon Lightfoot tra i terrestri, ma non prima di piazzare l'ultimo colpo di coda, la degna conclusione di una storia fantastica ed irripetibile: "Summertime Dream".

Archiviato il grande successo commerciale ottenuto con "Sundown" del 1974, il tassello successivo per il cantautore canadese è "Cold On The Shoulder", album calmo ed introspettivo, composto soprattutto da ballate dall'atmosfera a tratti bucolica, quasi a rappresentare un ultimo step del percorso iniziato nel 1972 con "Old Dan's Records" e continuato proprio con "Sundown". "Summertime Dream" è quindi un album nel segno delle discontinuità con i suoi immediati predecessori: ritorna l'eclettismo, ritorna la vivacità, ritornano di colori di quel grande capolavoro che fu "Summer Side Of Life" del 1971, con un'importante differenza: "Summertime Dream" è sostanzialmente un album di folk rock cantautorale, che pone l'accento sulla componente elettrica in maniera più decisa rispetto ai suoi predecessori. Questa svolta si fa notare fin dal singolo "Race Among The Ruins", brano estremamente radiofonico ed orecchiabile, scandito da un ritmo curiosamente identico a quello della contemporanea "We Will Rock You" dei Queen, in cui chitarre acustiche ed elettriche vanno di pari passo, intrecciandosi per creare un tessuto sonoro brillante ed immediatamente riconoscibile, un trademark che si riscontra anche nella più composta e vagamente malinconica "Never Too Close" e in I'd Do It Again", che è un folk-rock puro e semplice, incalzante e cadenzato, meno creativo rispetto al resto dell'album ma molto piacevole e ben suonato, con un breve ma incisivo assolo di steel guitar. A questo caratteristico stile si adattano anche episodi più lenti come la plumbea "Protocol", molto intensa e drammatica, in cui Lightfoot declama un testo di amara riflessione tra i migliori della sua carriera, quasi rassegnato davanti alla barbarie della guerra che si ripete immutabile in tutta la storia dell'uomo, e la conclusiva, raffinatissima "Too Many Clues In This Room", che per l'affascinante sound blueasy, che esalta l'elegante vocalità del cantautore e l'enigmaticità di un testo allegorico, di non facile interpretazione, richiama direttamente le atmosfere di "Sundown", rilette in chiave più elettrica.

Come in tutti gli album di Gordon Lightfoot, anche in "Summertime Dream" non mancano episodi più leggeri e disimpegnati, in primis la deliziosa titletrack, allegra e sbarazzina, una quasi filastrocca tanto semplice quanto riuscita ed efficace, un po' come lo era "Go My Way" di "Summer Side Of Life", poi "I'm Not Supposed To Care", l'unica vera ballad dell'album, ben interpretata ed impreziosita da languidi fraseggi di chitarra, e le suggestive "The House You Live In", e "Spanish Moss", caratterizzate da sonorità semiacustiche molto rilassanti e meditative, specialmente la seconda, vero gioiello di poesia bucolica e meditativa.

Tutto questo basterebbe per fare di "Summertime Dream" uno dei migliori album di Gordon Lightfoot per immediatezza, creatività ed ispirazione, ma c'è un valore aggiunto, c'è una canzone che da sola meriterebbe una recensione a parte: come "Early Morning Rain" era stata il simbolo dell'essenziale Gordon Lightfoot degli anni '60, semplice cantautore di campagna, così questa canzone è il punto più alto raggiunto dal cantautore maturo ed eclettico del decennio successivo: "The Wreck Of The Edmund Fitzgerald". La SS Edmund Fitzgerald era un'imponente nave cargo adibita al trasporto di minerali di ferro, che affondò nelle acque del lago Superiore il 10 novembre del 1975 in balia di una violenta tempesta, senza alcun superstite tra i ventinove membri dell'equipaggio. Questo tema non è nuovo per Lightfoot, che già nel 1969 scrisse "Ballad Of Yarmouth Castle", una vivida ed inquietante ballata sulla tragica fine di una vetusta nave a vapore affondata in seguito ad un rogo, ma "The Wreck Of The Edmund Fitzgerald" è molto di più: un riff di chitarra metallico, stridente, che si ripete senza posa, batteria e basso entrano in scena in un secondo momento, scandendo un ritmo ipnotico ed immutabile, il cantato è solenne, quasi declamatorio, da narratore preciso ed onnisciente, apparentemente distaccato ma che ha un obbiettivo più alto di quello di narrare un fatto di cronaca: l'atmosfera di questa canzone è epica, tesa, solenne, grigia e tempestosa come il cielo sopra il lago Superiore in quel triste giorno, e la sua struttura circolare ed immutabile sottintende la presenza di un fato ineluttabile, di un potere superiore della Natura capace di avere la meglio sull'uomo che sia avventura a sfidarlo, capace anche di affondare nelle acque di un lago un colosso di quattordicimila tonnellate, fiore all'occhiello dell'ingegneria navale dell'epoca.

"The church bell chimed ‘til it rang trwenty-nine times for each man on the Edmund Fitzgerald. The legend lives on from the Chippewa on down of the big lake they call Gitchee Gumee, Superior they said never gives up her dead when the gales of November came early."   

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