Quest'anno (ad onor della precisione, l'anno scorso, visto che siam da poco scivolati nel 2014) Babbo Natale mi ha reso molto contento, portandomi in dono il Teardo col Blixa, e celebrando sotto l'albero il fantasmagorico manifestarsi di Nik Turner (Hawkwind, per chi non lo sapesse) e il formidabile ritorno dei Gorguts. E proprio del loro ultimo lavoro “Colored Sands” mi piacerebbe quest'oggi parlarvi, se non altro perché è stato l'album che ho per ultimo ascoltato nel 2013 e quello che per primo ha solcato il mio lettore in questo nuovo anno (non so però se ciò sia cosa di buon auspicio...).
Si è molto parlato, e giustamente, dell'atteso comeback dei Carcass; un po' meno del riaffacciarsi sul mercato discografico della seminale formazione canadese: evento che in verità avrebbe meritato maggiore attenzione, se si pensa ad una lontananza dai riflettori durata ben dodici anni (“From Wisdom to Hate” usciva nel lontano 2001). I Gorguts (mi permetto di tracciare a questo punto una breve cronistoria per chi ignorasse la loro esistenza) sono stati attivi dal 1989 al 2005, ed in quel periodo hanno dato alle stampe quattro lavori – tutti superlativi – che, a scapito della scarsa popolarità riscossa (che certo non è stata direttamente proporzionale alla qualità in essi profusa), hanno assunto un ruolo fondamentale nell'espansione del suono di un genere quale è il death metal. Dopo la trascurabile parentesi targata Negativa (progetto scaturito dalle ceneri dei Gorguts stessi, ma che non pare aver accolto pareri particolarmente favorevoli da parte degli addetti ai lavori), il padre-padrone Luc Lemay (voce, chitarra, leader di sempre della band, nonché unico superstite dalla formazione del 2005) decide di tornare sui suoi passi e rifondare la sua creatura prediletta, circondandosi di nuovi gregari (la line-up risulta così rinnovata nei suoi tre/quarti) e dare alle stampe un bell'album di inediti a rinverdire la Leggenda.
Detto questo, personalmente parlando, i Gorguts “me li sono persi”; a leggere di loro in rete pare che costoro vengano dalla Luna, e così mi sono chiesto: “Ma cosa ne dirà mai il Debaser di cotanta immensità?”, e con grande gioia ho scovato nel data-baser la loro discografia completa vergata niente-popò-di-meno che dall'unica penna al mondo in grado di enunciare l'inenarrabile, ossia quella del divino Tepes (non so se vi ricordate di Tepes: un autentico artista della brutalità, uno che riusciva a scrivere trattati interi su lavori – tutta roba più o meno oscillante fra il grind ed il brutal-death – con una competenza, una padronanza lessicale ed una verve oratoria tali da inchiodarci allo schermo del pc disquisendo di argomenti inaccessibili a qualsiasi altro mortale).
Ma nonostante le dettagliate descrizioni del magnifico Tepes, continuavo a non figurarmi con esattezza cosa diavolo combinassero questi popo' di prodigi del death metal; l'unico modo per fugare ogni dubbio è stato infine quello di inserire il cd nel lettore.
Descrivere la musica dei Gorguts è oggi in verità più semplice rispetto ai tempi dell'illustre Tepes, poiché nel lasso di tempo in cui costoro sono venuti a mancare, i semi da essi gettati sono germogliati e quindi fioriti, favorendo l'emergere di band che a loro volta hanno saputo fare scuola. Oggi possiamo infatti citare a titolo di paragone nomi come Ulcerate, Portal e Deathspell Omega, formazioni che hanno saputo omaggiare i maestri canadesi adottando un linguaggio simile al loro, volto all'allestimento certosino di quelle tessiture sonore deviate, contorte e dissonanti che abbondavano in album come “The Erosion of Sanity” (1993) e l'altrettanto seminale “Obscura” (1998), ad oggi considerato il loro insuperato capolavoro.
Come altri casi anomali fluttuanti nell'empireo del metal estremo, il quartetto proveniente dal Quebec è annoverabile fra quelle entità coraggiose che nel corso degli anni novanta hanno saputo dare senso e contenuto ad un'etichetta quale è quella che risponde al nome di techincal death metal, solo che i canadesi, contrariamente ad altri, pur giovandosi di un approccio iper-tecnico, non hanno mai rinunciato alla loro intrinseca brutalità: una brutalità che in verità non è mai stata di ostacolo all'espressione incondizionata di una incontenibile verve creativa (è questo il bello della sfida) e che continua ad ancorare la loro musica ai dettami rigorosi della vecchia scuola (the real OLD SCHOOL); una brutalità che infine ci fornisce l'evidenza che il loro percorso non è altro che una dotta evoluzione che origina direttamente da un nucleo di ispirazione che vede ancora come numi tutelari act come Death (dell'era “Human”/“Individual Thought Patterns”) e Morbid Angel (quelli ovviamente più impastati e deviati).
Pare inoltre che Lemay negli anni recenti abbia ascoltato molto gli Opeth: ora, ovviamente il paragone è fuorviante, in quanto “Colored Sands” non si spinge così oltre nell'esplorazione di lidi progressivi (ripeto: la matrice di base rimane quella del death metal più devastante, e forse un accostamento pertinente, in quanto a tecnica e bestialità, può essere quello con i paladini del brutal per eccellenza Incantation o, per l'esotismo di certe ambientazioni, con i più recenti Nile), il paragone è quindi fuorviante, si diceva, ma i più attenti, in effetti, non potranno non notare qua e là qualche assonanza con certi passaggi di “Still Life” e “Blackwater Park”, ovviamente presi nella loro controparte più ferale.
Tutto questo, insieme ad una produzione limpida e potente al tempo stesso, è ciò che sta alla base della maestosa messa in scena imbastita in occasione di questo “Colored Sands”: un lavoro che per ovvi motivi non può più portare in sé quella carica radicalmente innovativa e disturbante che i capitoli precedenti custodivano, ma che rimane pur sempre un prodotto di altissimo livello, concepito da una mente superiore, supportato da una penna superlativa e messo a punto da una band in possesso di un bagaglio tecnico fuori dal comune. La destrezza con cui si muovono questi quattro funamboli del death metal permette loro di gestire una materia sonora incredibilmente complessa ed articolata con una tale disinvoltura da rendere l'ascolto addirittura scorrevole (e in questo mi permetto di allontanarmi un poco dal giudizio dell'insuperabile Tepes, che più volte ha ritenuto opportuno sottolineare l'osticità del sound dei nostri).
La performance dei quattro è una strenue lotta che richiama la furia degli elementi: il growl profondo di Lemay è vento impetuoso che incendia e brucia al suo passaggio, sospinge e trascina via il riffing torrenziale delle chitarre, fratturato continuamente da una prova fisica, schizofrenica e terremotante dietro alle pelli. E pensate che in questo putiferio è possibile individuare spesso il basso (letteralmente divelto fra lancinanti spennellate ed oscuri arpeggi che si aprono varchi terribili nei momenti di maggiore relax) o finezza impensabili in un contesto del genere, come i clamorosi giochi di armonici di chitarra lanciati alla velocità della luce. In tutto questo Lemay emerge con certezza come un talento raro all'interno del metal estremo: non solo musicista preparato tecnicamente, ma anche dotato di gusto e di equilibrio, di un suo stile peculiare, di una personalità fortissima e di una visione d'insieme ampia, nonché uomo di cultura e visionario paroliere, considerati i testi metafisici ed esistenzialisti che da sempre costituiscono un elemento distintivo per la band.
Non a caso in copertina, alla base di un busto senza volto, ma in compenso dotato di ben quattro braccia (due legate da quella stessa corda che pare fungere da rosario alle due superiori giunte a mo' di preghiera), giace un fitto labirinto; non c'era quindi da cercare lontano, le risposte erano tutte in questa copertina: un sound massacrante, claustrofobico, labirintico, oscuro, ma al contempo pregno di una forte valenza spirituale, una dimensione fatta di rabbia e in pari misura di desolazione, una ricerca che punta alle vette dell'Himalaya (area geografica fra l'altro spesso citata nei testi), dove l'onnipresente sfoggio di tecnica non è mai un esercizio fine a se stesso, ma uno sforzo di analisi e di sintesi funzionale ad un disegno di insieme che vede come obiettivo ultimo quello di dare forma a morbose visioni continuamente tendenti alla follia ed al trascendentale.
Inutile quindi citare un brano piuttosto che un altro: fatta eccezione della traccia centrale (“The Battle of Chamdo”, una strumentale per soli violini – ma attenzione: anche in questo frangente Lemay avrà modo di dimostrare la sua enorme caratura come compositore – ascoltare per credere) “Colored Sands” è una bestia indomabile, inafferrabile, intangibile, che nelle sue continue e sempiterne mutazioni, nella sua furia camaleontica, finisce per schiacciarci sotto il peso di un monolite di pura violenza e follia. Forse sessantadue minuti sono troppi per una proposta di questo tipo (del resto il grande Chuck l'aveva capito prima di tutti che un album di death metal non ha da dura' più di quaranta minuti): è innegabile infatti un fisiologico calo di tensione nella seconda metà dell'album, non tanto perché i brani posti in chiusura siano meno validi (sebbene le tracce iniziali “Le Toit du Monde” e “An Ocean of Wisdom” siano indubbiamente le migliori), ma perché le sorprendenti evoluzioni dei brani a lungo andare finiscono per non risultare più così sorprendenti, tanto che né gli svariati guizzi di genio (inaspettate oasi di melodia che si incontrano all'improvviso nella furia esecutiva più stordente; assurde voci gutturali che si sovrappongono in terribili mantra che sembrano venire da altri mondi ecc.), né un pezzone di nove minuti come “Absconders” (che non fa altro che riproporre in forma estesa quanto visto in precedenza, quando invece poteva essere l'occasione per costruire un qualcosa di diverso e di maggiormente composito) riescono a preservare il pur ottimo lavoro di Lemay & soci da critiche riguardanti la prolissità di molti passaggi ed una eccessiva dispersione di dettagli che non giova sicuramente all'insieme.
Ma a parte questo aspetto, rimane il fatto che l'album, a modo suo, può essere visto come un capolavoro nel suo genere: da un lato i Gorguts confermano infatti la classe e il valore che competono alla loro reputazione; dall'altro, non rimarranno certamente delusi né i fan della band, né gli appassionati di death metal in generale, un genere che, grazie anche e soprattutto a gente come i Gorguts, riacquista la sua più assoluta credibilità, mostrando in tutto il suo splendore, ancora oggi, quelli che sono i frutti di un lavoro svolto con onestà, dedizione e professionalità.
Concludo con Martin Lunther King, Jr (e badate che non lo cito io ma Lemay in persona, a titolo di complemento del testo del brano di chiusura “Reduced to Silence” ): “In the end we will remember not the words of our enemies, but the silence of our friends”.
Ode a Tepes, ode a Lemay.
Carico i commenti... con calma