Ho dedicato la mia vita a fare musica, quindi finché avrò la forza d'animo e ragionevole salute continuerò nella mia ricerca. Non so se riuscirò a scrivere un’altra “Clint Eastwood": suppongo che l'unico modo in cui puoi scrivere una canzone del genere sia non pensarci troppo

Nonostante la ventennale carriera, i Gorillaz, la band cartoonesca partorita dalla geniale mente del cantante e polistrumentista Damon Albarn e del fumettista Jamie Hewlett, riesce a mantenere intatta la propria caratura, dando alle stampe l’ennesimo intrigante tassello di una solida e variopinta discografia.

Cracker Island”, ottavo album in studio, è un piccolo gioiellino pop di serafica freschezza. Distante dagli episodi corali e kaleidoscopici che hanno rappresentato i momenti più vivaci del gruppo (si va da l’acclamato Plastic Beach”, passando per il monumentale “Humanz” e approdando al più bizzarro e recente “Song Machine”), il disco per affinità si avvicina maggiormente alle coordinate intimiste del laconico “The Now Now”, sia per ciò che concerne il bisogno ossessivo di rimbalzare da un genere all’altro (cosa ridotta al minimo in questa sede), sia per il numero di collaboratori, più contenuto, ma selezionato meticolosamente (a emergere sono i nomi altisonanti dell’enfant prodige Thundercat, del vate Beck, del fenomeno raggaeton macina streaming Bad Bunny e del magnetico e poliedrico Kevin Parker, con la sua creatura, Tame Impala).

10 pezzi e un minutaggio essenziale garantiscono una coesione e una forma disco che fino ad ora sembrava essere di scarso interesse per il gruppo. Ben inteso, non manca la volontà di giocare con i generi più disparati, ma ciò che è mancato a buona parte delle uscite della band, era un dialogo tra i vari pezzi che garantisse quel senso di unione: in “Cracker Island” l’operazione pare invece riuscita e il senso di unità dona una dignità maggiore a questo vitale progetto.

Timida e malinconica, ma anche gommosissima e catchy, l’opera frulla una svariata gamma di correnti musicali, imbastendo un ricco e succulento banchetto. C’è il funk appiccicoso della title track, il sytnh pop delicato di “Silent Running”, il pacato raggaeton di “Tormenta”, la delirante schizofrenia urban rave di “Skinny Ape”, e il blues sconsolato della conclusiva “Possesion Island”.

Un ottimo esempio di musica pop che, nonostante le numerosi concessioni alle classifiche, non rinuncia ad un linguaggio musicale più elaborato e stratificato, arrivando anche ad osare.

Quello che però manca (e del resto è sempre mancato) è quella capacità di lasciare un segno indelebile nella pop culture, assumendo quel ruolo destinato a pochi di band "imprenscindibile". Un vero dramma, nonostante il catalogo ricco e variegato. Una necessità che per ovvie ragioni non può essere colmata con un ottavo (seppur brillante) album.

Sarà per la prossima vita.

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