Galeotto fu il taglio e ch'impugnava le forbici.
C'era e ci sta ancora questo barbiere accanito lettore del Buscadero e fanatico allo stato terminale dei Gov't Mule: i Mule, i Mule, Dani', devi sentirti i Mule.
Fatto sta che, dopo 20 anni e passa che mi rimbombano in testa, qualche mese fa mi compro l'ultimo album dei Gov't Mule, «Heavy Load Blues».
I Mule sono, per farla semplice, la creatura di Warren Haynes, uno nelle cui vene il blues scorre a fiotti e che con la chitarra ci sa fare per davvero, altrimenti non sarebbe stato chiamato a prendere il posto di Duane Allman nella revivalistica uscita di scena della Allman Brothers Band negli anni '90.
Personaggio estremamente eclettico e con una gran passione per la jam, nella mia sostanziale ignoranza mi son fatto l'idea che per la vulgata Haynes e i Mule il meglio lo hanno dato in concerto, soprattutto quando piegano il repertorio altrui al proprio suono con estrema naturalezza: «Sco-Mule» in combutta con il chitarrista jazz John Scofield, «The Dark Side of the Mule» e «The Stoned Side of the Mule» a celebrare Floyd e Stones rispettivamente, quel «The Dub Side of the Mule» insieme a Toots Hillbert che a pelle è quello di cui conservo il ricordo più bello e una conoscenza meno superficiale.
Per come la vedo io, l'unica nota stonata in tutte queste testimoninze da un palco è che di tanto in tanto Haynes si lascia prendere la mano avventurandosi in interpretazioni senza fine di pezzi suoi o di classici altrui e per me, cresciuto a pane, marmellata e punk rock, ascoltare un pezzo che dura più di 4 minuti è sovente una tortura indicibile: in altri termini e per tirare ancora in ballo la Allman Brothers Band, sempre preferito le versioni in studio di «Whipping Post» e «In Memory of Elizabeth Reed» rispetto a quelle che occupano una facciata ciascuna nel doppio «At Fillmore East».
Detto questo, la prima cosa che mi è piaciuta di «Heavy Load Blues», prima ancora di sbarazzarmi dell'odioso cellophane, è la durata dei brani: 13 in tutto e solo due, l'apripista «Snatch It Back and Hold It» e «I Asked for Water», mettono a repentaglio la mia incolumità con i loro 8 e 9 minuti e spicci di secondi.
L'altra cosa bella, pure di più, è che alla fine mi ritrovo tra le mani un dischetto bello tondo e pure ragionevole di blues senza trucchi, senza inganni e senza fronzoli: dai classici «Blues Before Sunrise» e «I Asked for Water», passando per classici minori per modo di dire come la succitata «Snatch It Back and Hold It», sconfinando nel soul di «Ain't No Love in the Heart of the City» e «Feel Like Breaking Up Somebody's Home», fino alla puntata inattesa dalle parti di «Make It Rain», senza tralasciare originali assolutamente validi come «Hole in My Soul» – vale sempre che chi non ama il blues ha un buco nell'anima – e «Wake Up Dead».
Ecco, questo è un album che gronda blues da ogni singola nota – tanto blues elettrico talvolta alla maniera di un Muddy Waters talaltra nei modi di un B.B. King, un paio di squarci di blues acustico come si usava dalle parti del delta del Mississippi – e da ogni singola strofa – la donna scappa via col mio migliore amico e si porta via pure tutti i miei sudati risparmi, non ci dormo più la notte e mi ritrovo a fare l'alba col demone del blues, di questo passo un giorno o l'altro mi sveglierò morto, occhio che quel mio amico ha tirato le cuoia appena ieri.
Insomma, le solite storie trite e ritrite che, da Robert Johnson a Warren Haynes, ci si ostina a raccontare sempre uguali ma io le trovo sempre irresistibili, quando me le raccontano così bene.
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