Grace Jones è un personaggio ormai consegnato alla storia, nel bene e nel male: una che ha capito, caso più unico che raro, quand'era il momento giusto per farsi da parte e che è stata in grado di lasciare un segno profondo, se non nella storia della musica sicuramente nel costume. Tantissime scialbe imitatrici le hanno rubacchiato stili e pose plastiche, spesso e volentieri senza avere manco un decimo del suo talento e della sua presenza scenica, e con le varie "Libertango" e "Slave To The Rhytm" si è sicuramente ritagliata il suo meritato spazio nell'immaginario collettivo nonchè nell'Olimpo del Pop che conta. Grace Jones è stata un fenomeno abilmente costruito. Ebbene, si. Grace Jones è stata un'abilissima cavalcatrice di mode e di tendenze. Assolutamente si. Grace Jones è stata una mediocre arrivista priva di talento. A differenza di qualcun'altra che da più di trent'anni continua ad ammorbarci non-stop con le sue cagate, assolutamente no. L'immagine più vivida di questa cantante, attrice, modella e Diva giamaicana è sicuramente quella di una donna dal fascino androgino e statuario, sgargiante ma in qualche modo severo, quasi esagerato, quasi intimidatorio, ma la sua immagine anni '80 ha messo un po' in ombra i suoi esordi musicali, che mettono in mostra un altro lato, meno conosciuto ma altrettanto carismatico e conturbante di Grace Jones, un lato più civettuolo, più femminile, decisamente più sulle tonalità del rosa che del noir.
Sto parlando dei primi tre album di questa stravagante e poliedrica performer, assolutamente identici nella struttura, di riscontro commerciale progressivamente decrescente, una veloce ascesa e declino dal 1977 al 1979, seguendo lo sfavillante ma effimero successo della disco music: "Portfolio", "Fame" e "Muse", noti anche come la trilogia disco di Grace Jones. Dei tre, "Portfolio" è sicuramente quello più commercialmente fortunato, e nel complesso anche il più efficace; ascoltarlo nel 2013 equivale ad un salto indietro nel tempo, in un'epoca ormai lontana e non più ripetibile. Un album molto tradizionale nel suo genere, che trova le sue radici nella black music, nel funky e nel soul, senza cedere alla lusinghe d'avanguardia dell'elettronica, ed un prodotto di puro e semplice entertainment, genuino, camp, spensierato e godereccio, e la cosa meravigliosa è che non fa assolutamente nulla per nasconderlo. Grace canta con grandissima energia e disinvoltura, canta mettendo in mostra tutta la sua grazia felina ed il suo timbro potente, caldo e sensuale, canta per l'ebbrezza dello show, con ogni probabilità divertendosi lei stessa, soprattutto canta, non ansima e non biascica, non ha nessun bisogno di questi mezzucci da sciacquetta per essere sexy ed accattivante. Come anche nei successivi "Fame" e "Muse", l'originale lato A di "Portfolio" è interamente occupato da un "medley" in traccia unica, questo nello specifico è semplicemente una frizzantissima e scintillante cascata di lustrini lunga 18 minuti circa, per di più in crescendo rossiniano: direttamente da Broadway, tre canzoni che si integrano alla perfezione l'una con l'altra, formando di fatto una glitteratissima suite in tre atti. Si parte con "Send In The Clowns", una breve intro a tempo di walzer che lascia rapidamente posto ad un sontuoso disco-funky infarcito di cori ed orchestrazioni, continua il discorso "What I Did For Love", con ancor più energia ed una prestazione canora mozzafiato, raggiungendo infine l'apice con il ritmo incalzante, quasi "marziale" ed il favoloso chorus tormentone di "Tomorrow".
Il tour de force danzereccio prosegue imperterrito anche nel lato B, con atmosfere un po' meno teatrali ma ugualmente efficaci; il sensuale midtempo funky-soul di "Sorry", le splendide orchestrazioni e l'energia di "That's The Trouble" e la perfetta combinazione basso-piano di "I Need A Man", canzoni ormai completamente anacronistiche ma che non hanno perso assolutamente nulla in termini di impatto ed efficacia: le melodie si stampano in testa con assoluta facilità e naturalezza, quella voce da pantera graffia ieri come oggi e su ritmi del genere viene veramente spontaneo svuotare la testa e muovere il culo, la finalità ultima di questo disco è proprio questa, e per il suo ben preciso ambito di appartenenza questo è lo stato dell'arte, il meglio che si può avere. Il tocco di classe più particolare e caratterizzante del disco è posizionato strategicamente tra il medley iniziale ed il power-trio conclusivo: "La Vie En Rose", cover del leggendario classico di Edith Piaf e hit di discreto successo, elegantemente riproposta con un pregiato arrangiamento semiacustico jazzy-bossanova, un intermezzo elegante ed evocativo, un valore aggiunto che fa di "Portfolio" un album più completo, non sono un concentrato di disco music vintage di gran classe ma un primo assaggio dell'eclettismo e della straripante personalità di Grace Jones, in tutta la sua maestosa awesomeness.
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