Mi è capitato di vedere di recente, su You Tube, alcuni spezzoni di una delle 10 tappe del tour acustico in America di Graham dello scorso anno: una sedia, una chitarra acustica e il suo repertorio da solista fino al primo volume di “The End of the F***ing World”. Non era un concerto, era un gruppo di amici che ascoltano e cantano canzoni intorno al classico falò sulla spiaggia: solo che a suonare la chitarra e a cantare è uno dei più grandi musicisti UK degli ultimi 30 anni (definirlo solo chitarrista è oramai riduttivo, visto che nei suoi dischi da solista suona tutti gli strumenti). Vederlo suonare, chiacchierare, cantare e a volte pure stonare e sbagliare in qualche punto dei pezzi (e riderci e scherzarci sopra con il pubblico, tra l’altro), nel modo più naturale e umano possibile, è straordinario sotto molti punti di vista e sono convinto che uno come Barrett (uno dei suoi più importanti riferimenti musicali) ne sarebbe stato orgoglioso.

Guardarlo mi ha fatto pensare all’unica volta in cui ho avuto l’opportunità di trovarmelo davanti (ero in prima fila) durante il tour di “Happiness in Magazines” del 2004: l’impressione era di assistere alla sistematica distruzione dell’immagine della rock star: sembrava un impiegato che, appena uscito da una giornata di lavoro, era stato improvvisamente sbattuto sul palco; non mi dimenticherò mai l’atteggiamento dinoccolato e apparentemente disorientato ma divertito, con la faccia che continuava a fare buffe smorfie e imbarazzati sorrisi al pubblico e il continuo scompigliarsi i capelli. L’impressione, insomma, era di uno che non aveva la benché minima intenzione di prendersi sul serio, neanche per un attimo.

Ed è proprio con quell’attitudine che continua a sfornare, oramai da vent’anni, un album migliore dell’altro: “The End of the F***ing World 2” è il suo decimo da solista e ormai per me acquistare i suoi dischi è come incontrare dopo un po’ di tempo un vecchio compagno di viaggio che ha nuove cose importanti da condividere. Questo secondo volume (della OST dell’eccellente serie tv Netflix) è senza dubbio superiore al primo (che era già in ogni caso ottimo e vario), perché sembra, letteralmente, esplodere di idee: 20 brani in 50 minuti (gli spunti sono talmente tanti che ne poteva durare tranquillamente il doppio: è il suo caratteristico approccio sintetico e dritto al punto che non lo ha permesso) che scorrono, letteralmente, come l’acqua, nonostante l’estrema varietà di generi, stili e atmosfere proposte. Si naviga tra psichedelia, garage, country rock, alternative, folk rock, rock blues, stoner rock, influenze morriconiane, tentazioni jazz, fulmini noise, echi spagnoleggianti e nostalgie da primissimi ‘60s: quello che emerge è un album miracolosamente coeso nonostante la sua estrema varietà e un Coxon ispirato (che entra letteralmente dentro la storia e i personaggi, interpretando perfettamente atmosfere ed emozioni), maturo, colto.

Insomma, questo è uno che probabilmente si porta chitarre e vinili pure sotto le coperte, altrimenti non si spiegherebbe la folle mole di materiale (sempre di alto livello) che dal 1991, con e senza i Blur, continua a produrre incessantemente.

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