"Avevo appena composto The Worst e pensai: cazzo, ancora una volta ho copiato Gram".
Questa frase di Keith Richards sintetizza mirabilmente l'influenza di Parsons per chiunque si sia addentrato nelle aspre mulattiere del country-rock. Genere da Gram letteralmente coniato con la International Submarine Band, portato alla ribalta convertendo i Byrds di "Sweetheart of the rodeo", e reso perfetto con i Flying Burrito Brothers. Esperienze brevi e fulminanti come un lampo d'agosto, per un autore tanto geniale quanto instabile e tormentato. Come se non bastasse, poco prima di venir tranciato a 26 anni da un fatale miscuglio chimico, Parsons regalò pure due lavori solisti di impareggiabile valore, in grado di saldare la propria "cosmic american music" - una miscela di country, rock e soul di stupefacente vitalità - con la miglior canzone d'autore. Base non solo per le scorribande dei cavalli selvaggi stonesiani, ma per tutto l'alt-country degli anni 90, e non solo: l'immagine di questa pagina l'avrete probabilmente vista in una t-shirt indossata da Evan Dando, sotto una camicia di flanella, in un videoclip dei Lemonheads in piena era grunge.
Degno prologo al capolavoro "Grievous angel", "GP" sancì nel 1973 il sodalizio artistico-esistenziale di Parsons con la chanteuse Emmylou Harris, sua indiscussa musa, e con una band di stellari musicisti roots (da James Burton a Byron Berline). Il folgorante incipit "Still feeling blue" distilla perfettamente l'essenza modernista di Gram. E' puro Nashville: pedal steel, fiddle, doppie voci e cori. Il genere più reazionario esistente, rinnovato però attraverso insidiosi rivoli sonori, in una tensione sottocutanea che lo rende eccitante e attuale. Si ascoltino in tal senso anche le stilettate r‘n'b di "Big Mouth Blues" e "Cry one more time" (occhio al sax di Hal Battiste!) o il country-gospel febbricitante di "Kiss the children". Attuale, perché giostrato dal piglio libertario e rockettaro dell'iconoclasta bohemien che amava vagabondare per il deserto californiano con l'amico Richards, e che in "The Gilded Palace of sin" aveva raccontato con profondità sconcertante le tensioni dell'immensa America. Solo Parsons, ragazzo del sud dal crooning fresco e bruciante, poteva dunque addentrarsi tra questi solchi nella riedizione di standard quali "We'll Sweep Out The Ashes In The Morning", "Streets Of Baltimore" e "That's All It Took" con il suadente controcanto di Emmylou a mitigarne celestialmente l'impeto guascone. Senza risultare patetico, bensì il più brillante degli innovatori nel solco della tradizione.
Ma di canzone d'autore abbiamo parlato, e i restanti brani autografi basterebbero da soli a insediare Gram tra i grandi. Si pensi a "The new soft shoe", intrisa di malinconici coriandoli dalle parti del Neil Young di "After the gold rush", o alla vivida confessione di "How much I've lied", in cui si tirano a lucido gli speroni polverosi in una balera western illuminata da una melodia senza tempo. Fino ai due indiscussi apici dell'album. "A song for you" si scioglie nel divino organo di Glen Hardin, in bronzei fraseggi di chitarra e nei toccanti intrecci tra Gram e Emmylou dopo un'introduzione da infarto, scolpita idealmente nelle pietre del deserto del Mojave: "Oh my land is like a wild goose /Wanders all around everywhere/ Trembles and it shakes till every tree is loose/ it rolls the meadows and it rolls the nails...". Che dire poi di "She"? Ai tempi del liceo, avremmo messo questa suprema composizione in una di quelle selezioni su vecchie cassette, tese a sciogliere il cuore a qualche persona in grado di farci arrossire. Struggenti impasti d'organo e un cono d'ombra di violino portano a quell'incredibile "Halleluiah" dal sapore gospel scagliato in cielo. Così diverso da quello, celebre e rasoterra, di Cohen: summa dell'ardente desiderio di vivere di un angelo le cui ali si sarebbero spezzate poco dopo.
Le sue ceneri, disperse a Joshua Tree, continuano però a girovagare nei lidi più disparati, sospinte da un vento caldo e incessante.
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