Vero grande innovatore della musica americana, Gram Parsons nell’estate del 1973 registrò il suo ultimo disco, Grievous Angel, uscito postumo nel gennaio 1974. La sua musica è una finissima miscela di devastante bellezza fatta di country, rock e soul. L’originalità di questa formula, già precedentemente sperimentata coi Byrds e i Flying Burrito Brothers, messa a punto nel primo disco solista “GP”, dell’anno precedente, venne portata a compimento in questo lavoro, al quale contribuirono in maniera determinante le eccellenti armonie vocali di Emmylou Harris (all’epoca compagna di Parsons), la chitarra elettrica di James Burton (chitarrista di Elvis Presley) e la chitarra acustica e il dobro di Bernie Leadon (mai abbastanza lodato polistrumentista degli Eagles).
La desolazione del territorio, di certi spazi immensi, in queste composizioni è avvicinata all’inconsolabilità di certi stati d’animo, come se una certa solitudine fosse davvero incolmabile, sterminata come un deserto. La forza di questa disperazione, la profondità del suo richiamo, è il tessuto connettivo della musica di Parsons. I suoi veicoli di espressione sono il country, col quale dipinge meravigliosamente l’eco di certi spazi sconfinati, il rock, che infonde dinamismo e immediatezza comunicativa alla materia, e il soul, che anima tutto di passione purissima, a tratti accecante. Trovato morto a 27 anni in una hacienda nel deserto, nei pressi di Joshua Tree, aveva già scritto pagine indimenticabili come “Hickory Wind”, in “Sweetheart of Rodeo” dei Byrds (1968), oppure “Sin City”, in “The Gilded Palace of Sin” dei Flying Burrito Brothers (1969), e ancora “She”, in GP, splendida ballata dedicata a Emmylou Harris. Ma è Grievous Angel il più formidabile disco di Parsons, compendio perfetto di quella che lui chiamò “Cosmic American Music”, scintilla creatasi dal riflesso visionario che gli restituiva il cielo notturno sopra il deserto del Mojave, dove si recava con Keith Richards a prendere i trip (la Wild Horses degli Stones è di quel periodo folgorante).
E’ qui che a momenti il songwriting di Parsons è colata lavica che si solidifica, si ferma e dà forma alla complessità di una storia (“$ 1000 Wedding”), che altre volte risplende meditazioni amorose (“Brass Buttons”), si illumina sulle pieghe dei ricordi (“Hickory Wind”, dal vivo) oppure si manifesta come una lacerante introspezione, complice lo stupendo spartito di Boudleaux Bryant (“Love Hurts”).
Spirito musicale eccelso e inquieto, anima sdrucita e sofferente, nell’ultimo pezzo implorava “In my hour of darkness / In my time of need / Oh Lord grant me vision / Oh Lord grant me speed“ (“In My Hour Of Darkness”).
C’era qualcosa di profetico? Si, se si riferiva alla sua musica: oggi è più attuale che mai.
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