«Chi non ama il blues ha un buco nell’anima».
C’è chi dice di averlo letto negli anni della grande depressione sul muro scrostato di un negozio di dischi, in quel di Jackson.
Chi ne sa davvero, l’attribuisce a tale James Douglas Morrison, uno che cantava negli anni Sessanta in un gruppo chiamato Doors, le porte, le porte della percezione, roba da vecchi fricchettoni hippies, che qui li dico e subito li abbandono.
«Il blues generò un figlio, battezzato rock’n’roll».
Questo lo scrisse tale McKinley Morganfield, uno che il blues, da rurale che era, lo urbanizzò con abbondanti dosi di elettricità, e pure lui lo dico e repentinamente passo oltre.
«Il rock’n’roll è la nostra salvezza e la nostra dannazione. Troppo scarsi per farci i soldi, troppo dentro la cosa per smettere di farlo. In ogni caso siamo macchine da guerra che usano il loro corpo per creare ritmi e melodie marce e scatenare l’inferno».
Questo lo dice Wasted Pido, uno che al contrario non ha bisogno di presentazioni, e qui stoppo le citazioni e vengo al punto.
Che sarebbero i monobanda.
Ora, chi dice di aver ascoltato o visto un gruppo che suona il blues più brutto, sporco e cattivo di tutti, è solo perché non è mai inciampato in un monobanda.
Che roba è un monobanda è presto detto, uno - ma anche una, vivaddio - che se ne va in giro in perfetta solitudine con chitarra elettrica, amplificatore e foot-drum.
E qui, come un marinaio, tradisco la parola e piazzo un’altra citazione dal vago sapore filosofico, per cui essere monobanda è più di ogni altra cosa uno stile di vita, e quell’andarsene per le strade sempre da soli, poi, è proprio quello che ti fa dare tutto a chi viene a sentire quello che hai da cantare e suonare; andando a memoria, lo dice Tumba Swing, quello che sulla filosofia ci ha pure fatto un album, solo e mal’accompagnato, appunto.
A voler scavare ed approfondire, questa cosa dei monobanda ha origini lontane, e l’unica certezza è che tutti, nessuno escluso, hanno un solo padre che si chiama Hasil Adkins, che attaccò a suonare negli anni Cinquanta, andando avanti finché non tira le cuoia pochi anni fa.
Oddio, di certezza ce ne sta pure un’altra, ed è che a fare il monobanda non non si naviga nell’oro, cosicché l’unico momento di celebrità se lo guadagna Don Partridge che, da quella strada di cui era il re, camminando camminando un giorno arrivò addirittura a Top of the Pops, e va bene che era il 1968 ma fa strano lo stesso.
Che poi Don Partridge, appena lo vidi per la prima volta, me ne venni fuori esclamando «Ma è come Bennato!», il che rende l’idea di che razza sia un monobanda; solo che il buon Edoardo, pure lui lo capì subito che con questa storia di moneta sonante ne avrebbe vista poca, per cui addio monobanda, abbracciava una nuova filosofia di vita e si dava alle canzonette; però appunto rende l’idea.
A gente come Adkins, Partridge e pure Bennato, ed i contemporanei più o meno dimenticati, a tutti loro però mancava qualcosa, l’essere passati sotto le forche caudine del punk-rock, per cui non suonavano brutti, sporchi e cattivi e nemmeno facevano quell’infernale baccano che ti spingeva ad ascoltare i dischi in cuffia e a non andare ai concerti con i genitori al seguito.
È che invece, ad un certo punto, i monobanda sono diventati brutti, sporchi, cattivi e pure spaccatimpani, ed è più o meno quando si sono presi la scena brutti ceffi come Lightning Beat-Man che, almeno, all’inizio aveva la decenza di mascherarsi da lottatore, oggi nemmeno quella e va in giro a mostrare una grinta da gaglioffo sotto blasfemo pseudonimo di Reverend Beat-Man, e ne ha fatti più lui di danni con la sua casa discografica Voodoo Rhythm che trovalo tu un adeguato termine di paragone; per non dire di Bob Log III, che però ha il pudore di celarsi dietro un casco.
È qui che la musica dei padri, di Adkins e Partridge, come pure di Bennato, diventa mefitica, una miscela fatta di blues all’ottanta per cento e di punk al sessanta per cento, e se i conti non ti tornano è perché quella dei monobanda è musica ignorante suonata da gente ignorante per gente ignorante.
Che poi non è tanto vera, questa storia dell’ignoranza, perché per sentire questa musica, amarla e tradurla in pratica, occorre una sensibilità fuori dal comune, e quando parli con un monobanda ci credi davvero che la sua è una filosofia di vita prima ancora che stilistica, a partire dalla cosa di andarsene in giro soli e mal’accompagnati all’etica d.i.y. a tutto ciò che ne viene.
Poi, la cosa bella - oddio, bella a seconda dei punti di vista - è che questa storia dei monobanda ha pure cominciato a prendere piede fuori dei soliti paraggi; per dire, Lightining barra Reverend Beat-Man è svizzero, Tumba Swing è spagnolo, Wasted Pido e pure Elli de Mon sono italiani, ce ne sta una folta truppa in America Latina, ed è da questi ameni luoghi roccherrolle che arriva l’invasione monobanda, proprio come l’omonimo festival che dal 2014 attira a Roma frotte di bellimbusti; luoghi che un tempo stavano alla periferia dell’impero, oggi stanno il centro di una piccola e gioiosa, anarchica rivoluzione di note, un po’ come avvenne per il rap all’alba degli anni Ottanta e per il punk del precedente decennio.
A qualcuno fa comodo liquidarli come posti di me##a, ma ritornando a citare, Bob Log III su quella roba lì ci ha fatto un disco - «My Shit Is Perfect» - armeggiando disinvoltamente colla filosofia e pure la sociologia.
A proposito di luoghi ameni, non ho detto degli amati cugini transalpini, per cui ecco Grand Guru.
Uno che nel 2011 inizia a battere le strade di Rouen col suo armamentario d’ordinanza e nel 2014 arriva al primo disco - questo «Let It Blurt!», ovviamente autoprodotto a nome della funambolica Guru Disques - continuando a battere le strade come se niente fosse, oppure se gli apre la porta qualche spacciatore di vinile o il manutengolo di un qualche localaccio tipo quello dell’invasione monobanda, davanti a quella faccia da Johnny Ramone delle caverne e l’anima senza alcun buco; tutto mentre Nick Drake e Jeff Buckley, potessero proferire parola dalle copertine dei loro vinili, si chiederebbero come ca##o siamo arrivati a questo punto.
Allora chi vuole sentire come suona il blues quando è davvero brutto, sporco e cattivo, e spacca pure i timpani, può partire da qui, tra una chitarra satura di fuzz e distorta all’inverosimile ed una foot-drum che tiene il ritmo più indiavolato di quello di cento tamburini incattiviti.
Tipo io che da qui son partito alla scoperta dei monobanda e, tra questi solchi, ho pure capito come fa un monobanda che sputa fuori blues vecchio di cento e passa anni a devastare molto più che un gruppo hardcore-punk; è qualcosa che ha a che vedere colle filosofie di vita, sicuro che è così.
Per intanto, buon ascolto a chi ha un’anima senza buchi per ascoltare e fare proprio tutto questo.
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