Quando - giovane e squattrinato - m’aggiravo per le strade larghe e ostili di Londra, e il mio futuro più immediato era rappresentato dai tavoli di uno spaghetti-house di Queen’s Park, ben pochi cd mi era concesso d’acquistare e pochi di più il tempo spietato mi dava licenza d’ascoltare. Era il tempo in cui ci si innamorava facilmente, il tempo in cui a forza d’ascoltare gli stessi cd si finiva per impararli a memoria: era il tempo che non ritorna più.
E mi ricordo un giorno in cui – vagando per le anzidette strade – mi ritrovai con 12 sterline nelle tasche e un desiderio insostenibile di farmi trafiggere il cuore da qualcosa. Quando questo succede – oramai sempre più raramente ahimè – la mia diventa quasi una missione. Ciò che occorre è: un negozio di dischi, imponente se possibile; una giornata a disposizione, intera se possibile; un’idea, che non afferro al volo, ma che so si farà spazio nel corso della ricerca. Quel giorno quell’idea non si rivelò subito, ma necessitò del tempo; e mi pressò, e mi sospinse, e alla lunga, di fronte alla mia incapacità di afferrarla, cominciò ad urlarmi nelle orecchie. “Shiva Burlerque, Shiva Burlesque..” Che voleva mai dirmi?
Poi, d’improvviso, l’illuminazione accese i miei pochi neuroni vaganti tra gli scaffali. L’illuminazione! Dovevo assolutamente avere qualcosa di quella band di cui tanto avevo sentito parlare, titolari di una proposta musicale parecchio originale, a quanto si diceva: una miscela psichedelica eterea intinta nel blues più obliquo e drammatico.
Caso volle che nulla trovai; in compenso feci mio quello che poi sarà il primo ed insuperato capolavoro del di loro eccentrico chitarrista, Grant Lee Philipps. La band ne mutuerà il nome in “Grant Lee Buffalo”, e “Fuzzy” l’album in questione.
Sarà amore a primo ascolto, e nessun rimorso mi portai mai dietro per quello che – allora – fu acquisto di rimpiazzo. Collezione inimitabile di ballate folk tra atmosfere rarefatte, melodie raffinate e cantilene per cullare, impegno politico e fantasmi del passato (in primis, Woody Guthrie e Lou Reed).
“Mighty Joe Moon” dell’anno dopo ne ricalcò le forme per qualità e concretezza, aggiungendoci una maggiore sicurezza nei propri mezzi. Quindi, un tour di spalla ai R.E.M. (che l’occhio lungo hanno sempre dimostrato di averlo, vedi alla voce Sparklehorse, tour 1996, e Radiohead, spalla l’anno successivo).
Poi, l’inevitabile discesa, che prese forma e note nel terzo lavoro, “Copperopolis”, flaccido e inconsistente fin dal titolo. E, quindi, l’oblio, del mondo intero e mio personale.

Giunge, ora, a rinfoltire la mia collezione, ora che gli anni son passati e il conto in banca mi ha permesso il lusso di qualche acquisto in più, anche non imprescindibile, “Jubilee”, che dei Grant Lee Buffalo ne è epitaffio e testamento, ultimo tassello di una delle tante parabole del mondo rock, sipario in chiusura dopo lo spettacolo, spettatori plaudenti e marionette riposte nel cassetto.
Al cuor non si comanda, ma dopo il terzo deludente lavoro, ero certo d’aspettarmi una fine meno gloriosa. Il dischetto in questione, invece, ha il suo buon motivo per farsi apprezzare, a cominciare da una “Seconds” dal ritmo incalzante e il ritornello che ti si fionda nella testa, passando attraverso una “Come To Mama, She Said” piena d’allegria e spensieratezza, cascata di armonie e carezze, una “My My My” di sapore Neil Young, e non solo per il titolo, una “Everybody Needs A Little Sanctuary” in cui Michael Stipe presta i cori.
Su tutte, la “Superslomotion” che poi non a torto verrà consegnata alla lista delle migliori del gruppo americano, come un Jeff Buckley intinto nel folk di matrice roots.

Il resto è noia. Lo scioglimento, una carriera onesta da solista per Philipps, due album prescindibili, una valanga di bei ricordi. E un happy end dal sapore vagamente amaro.
Era proprio bella Londra, quel giorno. Chissà perché.

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