Gruppo prezioso, i Grant Lee Buffalo.

Appartengono certamente alla loro discografia alcune delle pagine migliori di quel rock USA anni 90 che cercò di riportare in auge, in una decade di turbolenti cambiamenti, il suono "americano" più classico, fatto di genuini passaggi elettroacustici, di poesia e quotidianità delle infinite distese rurali e costiere, delle utopie e delle tensioni umane che le caratterizzano.

Non che negli anni del grunge mancassero gruppi intenti ad abbeverarsi alla fonte dei classici: dai Black Crowes ai Jayhawks passando per gli American Music Club. Persino i Pearl Jam - da "Vitalogy" in poi - avrebbero iniziato un destabilizzante e splendido viaggio alla ricerca di una propria, peculiare epica americana, sulla scia del risorto Neil Young di "Sleeps with angels" e dei R.E.M. di "Automatic for the people".

Tuttavia, i gruppi neo-tradizionalisti sostanzialmente non apportarono nulla di nuovo a feticci musicali cristallizzati nella loro perfezione, affidandosi, nel migliore dei casi, alla classe e al feeling.
Per i Grant Lee Buffalo era diverso: all'onirico e variegato songwriting del leader Grant Lee Phillips si aggiungeva una visione musicale non comune, in cui era fondamentale l'apporto del bassista/tastierista/produttore Paul Kimble. Ne derivava una capacità di rileggere gli archetipi della canzone americana (Cash, Dylan, Young) attraverso il prisma di un "british touch" ispiratissimo, recante a tratti le stimmate del languore glam di Bowie e del decadentismo alla Joy Division, rinvigorendo sovente il tutto mediante ruvidi detriti post-punk. Dopo i bagliori psych-rock del promettente "Fuzzy", il successivo "Mighty Joe Moon" affinò alla perfezione il tessuto sonoro del gruppo. Vi si trovano tredici gemme di calda, avvolgente intensità che variano da toni malinconicamente acustici ad esplosioni chitarristiche, dove psichedelia e roots-rock si inseguono tra suggestioni ipnotiche e crepuscolari.

Abbondano i gioielli tra questi solchi; "Lone star song", blues elettrico imbottito di allucinogeni; "Mockingbirds" e la title track, languide ballate rurali impregnate di umori boweiani in cui Phillips gioca con i toni della sua voce, ora algidi ora in un delicato falsetto; "Demon called deception", in cui spettrali echi country si infrangono in una gotica cattedrale eretta dai Joy division; "Sing along" e "Side by side", sontuose rivisitazioni dello spleen chitarristico dei Thin White Rope; "Drag", forte di eteree soluzioni non lontane dal Van Morrison di "Astral weeks". E ancora la cartolina bucolica anni 30 di "Last days of Tecumseh", o il classico folk di protesta "It's the life" mentre la matura "Rock for ages" chiude l'album con il piglio dello Springsteen più ispirato. L'incantevole "Lady Godiva and me" invece sintetizza al meglio le anime del gruppo: parte soave e fiabesca, riallacciandosi al Neil Young di "Helpless", per sfociare in un impeto degno dei Replacements.

Fondamentali sono i testi di Phillips nel definire il tono dell'opera: "We hunger for a bit of faith to replace our fear", egli cantava in "Fuzzy". E l'America è sempre un ricettacolo di paure, cinismo e angosce, in cui l'autore si muove desolato: non più arcigni e diretti attacchi come nelle precedenti "America snoring" o "Stars and stripes", ma squarci spiazzanti degni di un film di Eastwood. "Demon called deception" e "It's the life" sono emblematiche in tal senso ("brother nothin' here is any good / See the birds they're a dropping like a star Wormwood"), mentre in "Lone star song" viene rivisitato l'assedio di Waco e la storia di David Koresh - il Charles Manson di quella generazione - sferzando il punto di vista distorto e manipolatorio dei mass media.
Tali tormenti si riflettono inevitabilmente anche nella sfera privata, e qui Phillips regala due perle acustiche, "Happiness" e "Honey don't think", reminiscenti il Neil Young di "Motion Pictures". Liriche magnifiche nella loro fragilità sono "The difference in the two us comes down to the way you rise over things I just put down" oppure "Could you learn to read minds / and in the case of mine do you read in the dark?".

La magia dell'ensemble non sarebbe durata a lungo (i successivi "Copperopolis" e "Jubilee" non lasciarono sostanzialmente tracce), ma "Mighty Joe Moon" basta e avanza per ricordare i Grant Lee Buffalo tra i grandi degli anni 90.

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