Cosa vi fa battere il cuore? In questi tempi cupi di guerra, in Europa (perché in giro per il mondo c’è sempre stata), di crisi economica e sociale, di crisi culturale e di analfabetismo funzionale. In questi tempi di follower, di socialmedia manager, di like, di imperversanti fotografie di cibo, di ticktocker, di influencer, di invasione digitale di ogni spazio umano e spirituale, cosa vi fa battere il cuore?
In questi tempi di cinismo, di assuefazione, di trasgressione fasulla e ad ogni costo, di sarcasmo, di individualismo sfrenato, di rigetto per tutto ciò che è umanistico, nel senso di ciò che mette l’uomo in una posizione centrale ed elevata, cosa vi fa battere il cuore?
Una delle cose che mi fanno palpitare il cuore - non l’unica, per fortuna - è la musica evidentemente, altrimenti non sarei qui a perder tempo davanti ad un computer per scrivere idee e sensazioni nella speranza di renderle comprensibili ad una altro essere umano oltre che per meglio focalizzarle in una sorta di diario personale. Perché, si sa, scrivere è un processo che richiede riflessione, analisi e sintesi. E per dirla tutta, la musica, oltre il cuore scuote anche tutto il resto, cervello, budella ed epidermide. Si, anche l’anima, se esiste.
Un’altra cosa che mi fa battere il cuore, almeno di tanto in tanto, è la nostalgia. E credo che il “dolore del ritorno” faccia pulsare il cuore anche di Grant Lee Phillips, almeno di tanto in tanto.
Ne sono convinto perché deve essere stata la nostalgia a spingerlo, nel 2006, a pubblicare un disco come Nineteeneighties, il quale altro non è che una macchina del tempo perduto, che consente ai crono-viaggiatori di muoversi in una sola direzione, verso il passato e, per di più, verso un’unica specifica decade, quella in cui il nostro si è formato ed è cresciuto come musicista. Quale essa sia è facile intuirlo sin dal titolo.
Grant Lee (che, curiosamente, riconcilia nel suo nome i cognomi del vincitore e del vinto della guerra di secessione americana) non fa mistero di aver raccolto in questo album le sue canzoni preferite degli anni 80. Undici cover di brani New Wave (in senso ampio) che risulteranno immediatamente familiari a molti se non a tutti, scelte dal repertorio dei Pixies, New Order, Joy Division, Robyn Hitchcock, Echo and the Bunnymen, Psychedelic Furs, Church, Nick Cave, REM, Cure e Smiths.
Phillips si accosta a questo materiale con amore e rispetto, prediligendo arrangiamenti acustici piuttosto che un suono elettrico più simile allo stile degli originali, amalgamando tra loro i brani in un’atmosfera di incantevole malinconia che ben si adatta all’attitudine dell’artista e che favorisce il prevalere di quel senso di nostalgia di cui parlavo, soprattutto per chi queste canzoni le ha già vissute.
Non tutto è perfetto in questo album, ci sono versioni più riuscite ed altre meno, ma le poche imperfezioni si stemperano nel contesto generale di grande omogeneità, dovuto non solo al fatto che Phillips suona la maggior parte degli strumenti e, non contento, mixa e produce l'album, ma anche grazie alla sua sensibilità nel portare le canzoni fuori dal loro contesto originale, scarnificandole e mettendone a nudo l’essenza.
Grant Lee Phillips, californiano di Stockton, dopo gli Shiva Burlesque (con cui incide due album) forma insieme al bassista Paul Kimble ed al batterista Joey Peters i Grant Lee Buffalo che nel 1993 pubblicano il loro album di debutto Fuzzy e l’anno seguente Mighty Joe Moon, i loro due lavori migliori, caratterizzati dall’alternarsi di momenti acustici ed esplosioni elettriche che ricordano Neil Young ed il Sindacato del Sogno. Nel 1998, dopo aver aperto i concerti dei REM nel loro Monster World Tour e dopo altri due album qualitativamente inferiori ai primi, la band si scioglie e Grant Lee avvia la sua carriera solista.
Nineteeneighties è il quarto disco di Phillips, il quale avrebbe potuto confezionare un onesto album di cover scegliendole nell’ambito di un repertorio a lui più congeniale come fece, per esempio, ai tempi dei Buffalo con "For the Turnstiles" di Neil Young. Invece, Nineteeneighties seleziona canzoni che non hanno alcuna relazione evidente con il catalogo dei Grant Lee Buffalo, né con quello del Grant Lee solista.
Phillips apre l'album con "Wave of Mutilation" dei Pixies, estremamente rallentata e con la chitarra slide che ricama sulla base acustica, suonata come se ci stessimo godendo il tramonto sulla spiaggia di Waikiki con in mano un Pina Colada ed al collo una ghirlanda hawaiana. E sin da questo primo brano si nota uno degli elementi che determinano la riuscita di questo disco, ossia la scelta di canzoni facilmente riconoscibili e tali, quindi, da risultare identificabili anche dopo essere state destrutturate e riarrangiate alla maniera di Phillips. Scelta molto diversa e forse più “furba” di quella compiuta da Nick Cave con Kicking against the Pricks, altro album di cover in cui, ad eccezione di “Hey Joe” ed “All Tomorrow's Parties”, furono scelte canzoni meno note.
L’altro elemento che rende Nineteeneighties un ottimo album è il tentativo - perfettamente riuscito - di farlo suonare il più possibile come un album di brani originali di Grant Lee Phillips. Ed infatti, Nineteeneighties si integra bene con il resto della discografia dell’autore, il quale non si limita a reinterpretare queste canzoni ma ne cambia il tempo, ne modificare la melodia, sostituisce strumenti, pur mantenendone intatta l’essenza. E questa non è impresa da poco. Anche se forse l’unica considerazione valida è che una buona canzone resta una buona canzone, sempre e comunque.
"Age Of Consent" dei New Order è una delle gemme di questo disco, con un giro di chitarra acustica che sembra prelevato da “You Can’t Always Get What You Want” degli Stones ed accompagnata da una morbida tastiera e da un violoncello. Parenti stretti dei New Order sono i Joy Division della successiva “The Eternal” che forse, malgrado lo stupendo accompagnamento di armonica, resta uno dei momenti meno riusciti, ma probabilmente la mia valutazione è influenzata dal fatto che non amo particolarmente l’originale. Altro piccolo gioiello è, invece, "I Often Dream Of Trains" di Robyn Hitchcock che da filastrocca barrettiana viene trasformata in folk gotico. Bellissima anche la cover di "The Killing Moon" di Echo And The Bunnymen, fedele all’originale, ma rallentata ed acustica, praticamente la versione unplugged ed intimista. “Love My Way” degli Psychedelic Furs, nell’abito acustico cucitole su misura, appare più sobria e fascinosa dell’originale mentre "Under The Milky Way" dei Church, per sua natura, si adatta perfettamente alla scenografia allestita da Phillips. Il folk-blues della "City Of Refuge" di Cave perde la carica travolgente e luciferina dell’originale e si trasforma in una ammaliante e fosca ballata western, perfetta colonna sonora per una novella di Joe Lansdale ed appropriata introduzione ad una “So Central Rain (I'm Sorry)” molto più scura della versione dei R.E.M.. "Boys Don't Cry" dei Cure, caratterizzata dal suono dell’ukulele e di un toy piano, sembra realmente suonata con gli strumenti giocattolo del video originale. Chiude la scaletta un’intensa “Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me” degli Smiths che, tuttavia, a parere di chi scrive, risulta inferiore all’originale in cui l’arrangiamento elettrico e la chitarra di Johnny Marr danno la carica giusta senza la quale il brano risulta eccessivamente “lagnoso”.
In ogni caso, Nineteeneighties è un disco bellissimo, eseguito in modo impeccabile che, se fosse composto da materiale originale, non esiterei a definire un capolavoro assoluto. Uno dei pochi album di cover che riesce ad rispettare lo spirito dei brani pur trattandoli con originalità.
Etereo ed oscuramente romantico, Nineteeneighties è un onirico viaggio nel passato che Phillips - moderno pifferaio di Hamelin - compie per se stesso e per guidare tutti coloro che vogliano lasciarsi incantare e vogliano perdersi (per 43 minuti) nei suoi sognanti anni 80.
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