Sono stanco e con il bisogno di assecondare il mio desiderio di pura e semplice buona musica. Musica che sia semplice, rilassante, musicale e che mi faccia passare del tempo in totale distacco, che entri dentro di me ed una volta dentro riesca in qualche modo a smuovere quello che incontra e così facendo mi dia sensazioni positive, belle. Ok, ci provo. Recensire o meglio parlare di un disco che ha sulle spalle ben 35 anni, non è per niente facile. Tutto è già stato detto e scritto su i Dead e su questo album, ciò non mi nega comunque la possibilità di riproporre e di eventualmente far conoscere questa perla chiamata "American Beauty".
Per via della poca familiarità con gli strumenti elettrici e soprattutto per la scarsa conoscenza dell'ambiente "recording studio" i primi tre albums dei Dead non ebbero un enorme successo. Successo o meglio conferma che arrivò con la pubblicazione del leggendario "Live/Dead" con il quale i nostri diedero una indiscutibile prova del loro talento di musicisti e di jam-band adatta e perfetta alle dimensioni di un set Live. Il 1970 fù un anno estremamente fortunato (anche se funesto) per la band di Jerry Garcia. Quell'anno vide l'uscita del terzo album studio "Workingman's Dead" in marzo, ed in novembre dello stesso anno questo "American Beauty". Acclamato da molti come l'episodio in assoluto più riuscito della Dead discografia in ambito studio, "American Beauty" si caratterizza per il netto abbandono del suono esclusivamente elettrico a favore di un suono principalmente acustico e solo in parte elettrico.
Qui Garcia & Co. scavano a fondo nella tradizione più pura del Folk/Bluegrass americano e incidono un disco che si eleva a capolavoro proprio per la loro estrema bravura nel suonare come jam-band. Il folk/Bluegrass era l'amore di Jerry Garcia, abilissimo suonatore di banjo nei Warlocks, una sorta di costola primordiale dei Grateful Dead. Avendo "imparato" (anche se per il loro Background nessuno aveva bisogno di imparare) a dialogare, parlare con gli strumenti dando vita ad emozionantissime ed indiavolate jam elettriche con "AB" dimostrarono quanto siano stati egualmente eccellenti in una dimensione puramente acustica. Troviamo qui delle vere e proprie perle, che poi diventeranno dei classici del repertorio Live. Come non citare la emozionantissima "Box of Rain" scritta dal bassista Phil Lesh e dedicata dal paroliere dei Dead, Robert Hunter, al padre di quest'ultimo malato di cancro. "Friend of the Devil" è una bellissima ballata folk-rock con un ritmo assolutamente pregevole ed accattivante, "Sugar Magnolia" strizza l'occhio al blues, la seguente "Operator" è la canzone che io vorrei come colonna sonora per un ipotetico viaggio sulla mitica Route 66.
Indiscussi maestri della psichedelia i Dead, anche nella loro produzione acustica, ci deliziano con un pezzo come "Candyman" che allarga la percezione spazio-temporale e dà quel senso di pace, tranquillità e viaggio che fà si che i miei neuroni decidano di andare a zonzo per un pò. Discorso pressochè uguale per la splendida "Ripple" arricchita da un grande lavoro di Banjo come accompagnamento. È inutile andare avanti nella descrizione delle canzoni che sono tutte vere e proprie gemme nate in un contesto, di assoluta armonia e pace che ha sempre per tutti gli anni seguenti caratterizzato i Grateful Dead, regalando loro la stima e l'amore incontrastato di migliaia di DeadHeads che hanno visto ed in alcuni casi toccato con mano la straordinaria personalità di questa band che negli anni (40 per la precisione) ha realizzato il sogno di far divertire la gente, farla ballare, farla emozionare toccando bene o male tutti i punti del globo. I Dead hanno impersonato per 40 lunghi anni lo spirito più puro della Hippie Generation presentandosi come una grande famiglia con migliaia di figli e predicando il verbo del rock lisergico e psichedelico. Questo è uno dei tanti testamenti musicali che ci hanno lasciato ma che rimane attuale ed immensamente bello e elegantemente acustico. Da avere!
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