Dopo aver stabilito il loro quartiere generale a San Francisco al numero 710 di Ashbury Street, i Grateful Dead si imposero gradualmente come il principale vessillifero della Summer of Love, della controcultura hippie e della scena psichedelica californiana .
Ciò avvenne fondamentalmente in virtù delle loro leggendarie esibizioni dal vivo: fu però con "Aoxomoxoa" del 1969 che i conti della band di Jerry Garcia iniziarono a tornare anche in studio, dopo un primo album deludente e un secondo, "Anthem of the Sun", un po' troppo forzato nel suo sfaccettato eclettismo. Nelle otto composizioni di "Aoxomoxoa" la sofisticata alchimia della band raggiunse risultati finalmente all'altezza, mantenendosi tra l'altro su binari che privilegiano la concisione a discapito delle dilatate cavalcate sonore alla "Dark Star", l'episodio più celebrato del loro sterminato catalogo. Tra brandelli lisergici, echi folk, partiture bluegrass, acide impennate chitarristiche, spettri free jazz e iridescenti tessiture d'organo si crea qui la matrice definitiva del sound Grateful Dead, la quale sarà poi  intarsiata ulteriormente nei lavori successivi, in particolare "Workingman's Dead""American Beauty".

L'album debutta alla grande con uno dei classici della band: "St. Stephen", 4 minuti sincopati e strepitosi, in cui convivono accenni gospel e sinuosi riverberi d'organo, pennate boogie di "Captain" Jerry e interplay vocali sognanti.
Una delle chiavi del successo del gruppo era la sontuosa sincronia tra i numerosi membri della band, che in particolare annotava due batteristi e due tastieristi: ne derivava una capacità di passare con naturalezza dalle sperimentazioni acide di "China Cat Sunflower" e  "Cosmic Charlie" ( fantastici i riff blues e le divagazioni chitarristiche di Garcia) alla dolce lisergia di una ballata come "Rosemary". Da antologia è poi la perizia con cui "Dupree's Diamond Blues" batte i sentieri del rock-blues più ispirato ( che li mette sullo stesso piano della Band), mentre in"Doin' that rag" l'esuberante canovaccio jazz-psichedelico messo in scena è a dir poco accattivante.
Il quid dei Grateful Dead era però dato certamente dalla capacità di dilatare le atmosfere, di trasportare l'ascoltatore in universi sonori stranianti ed estatici. Se il lungo mantra tibetano di "What's become of the baby" -  coevo al celebre esperimento lisergico-trascendentale di "Mind gardens" dei Byrds  - suona in tal senso po' pretenzioso e stucchevole, è invece struggente la  sciamanica "Mountains of the Moon": echi country e pazzeschi tocchi d'organo dipingono estese fluttuazioni psichedeliche, alla ricerca delle stelle oscure del nostro universo, in una reverie scolpita da versi come "Andato è il tempo lontano e solitario, la sibilla delle fiabe vola lungo tutte le montagne della luna". 

 L'avventura dei Grateful Dead andò avanti anche quando l'era delle visioni acide si era ormai consumata, per finire definitivamente quando Garcia morì nel 1995. Ma da qualche parte il buon Jerry, come l'Ancient Mariner di Coleridge, starà certamente alla guida del suo vascello, solcando tempestose galassie sonore.

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