Come mai i Grateful Dead non sono mai stati troppo considerati dal pubblico o dalla critica italiani? E come mai di quest'album - peraltro molto interessante, ancorché non certo un capolavoro - non si parla mai?
Dubito vi sia una congiura dei nostri servizi segreti deviati contro la band psichedelik - folk - roots -etnic rock del compianto Jerry Garcia, dunque, escludendo rappresaglie contro la mia recensione, mi prendo il delicato incarico di introdurre il lettore a quest'album.
Mi scuso se sono troppo sintetico, ma fra circa quaranta minuti ho il treno in partenza, per cui dovrò necessariamente fare alla svelta: perdonate dunque la sintesi, che mi obbliga ad essere più rapido del solito, al netto di questa premessa.
Pubblicato nel '75, quando il gruppo aveva ormai dato il meglio di sé e la stagione dei fiori era ormai volta verso l'autunno, "Blues for Allah" codifica il suono dei Deads della maturità in un lucido insieme di canzoni dai delicati toni acustici, con qualche inserto elettrico che tuttavia non turba il pacifico incedere dell'insieme, che, abbandonata ogni velleità sperimentale o di rottura, si riallaccia ad una tradizione musicale statunitense che vedeva primeggiare, in quegli anni, epigoni dei Byrds come gli Eagles, i Doobie Brothers, e, per certi aspetti, gli stessi Steely Dan meno jazzy... quelli per Do It Again per intenderci, o Reelin' in the Years.
Musica sostanzialmente semplice e lineare dunque, salvata dal mestiere, dal cantato trasognato e dalla sempre pulita e brillante chitarra di Garcia, ben sorretta dal resto del gruppo. Musica meditativa sotto alcuni aspetti, certamente rilassata... anche se non sempre di facile ascolto, posto che le melodie dei Deads hanno sempre un andamento zigzagante che ne attutisce l'impatto commerciale e non sempre ne consente la memorizzazione, anche quando sembra scorrere nelle nostre viscere come acqua fresca delle fontane della luna.
Una considerazione a parte merita, tuttavia, la conclusiva titletrack, brano che da solo vale l'acquisto o quantomeno l'ascolto dell'album: qui i tempi si fanno più dilatati, vengono riprodotte in laboratorio-studio di registrazione le atmosfere delle jam sessions dal vivo della Morte Graziosa, il contrasto fra tensione elettrica e rilassatezza acustica si sposa alla perfezione nel caracollare blues del brano, arricchito da un canto ipnotico ed al contempo quasi ritualistico, che per certi aspetti si riallaccia alla vocazione psichedelica del gruppo.
Decisamente uno dei pezzi più ispirati della band, probabilmente uno dei più interessanti brani degli anni '70, anche se dalle nostre parti si impazziva per il prog di marca inglese e, all'epoca, per il tardo hard rock degli Zeppelin e dei resti dei Deep Purple.
Detto questo, un quattro di stima - anche per incentivarne l'ascolto - all'album, ed un saluto a tutti, perché corro a prendere il treno, sparandomi nell'ipod proprio i Deads.
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