Mi son detto: ma cosa vai a recensire i dischi storici dei Grateful Dead, sicuramente ce li hanno tutti, sia le perle di studio che – soprattutto – i leggendari live: Live/Dead, Europe ’72, Skull ‘n Roses, Steal Your Face, Dead Set, Reckoning, Without A Net, per non parlare della valanga di inestimabili registrazioni dal vivo che ha stremato i fans e messo sul lastrico famiglie intere (mi mancano una decina di Dick’s Picks, ma non ho il coraggio di farmeli venire dagli USA). Poi nella mia cospicua collezione ho tanato, proprio vicino a Without A Net, una compilation a tema che nel ‘91 i Dead vollero dedicare alle sezioni “Space” del 1989 e del 1990, saccheggiando anche (non solo a mio parere) diverse versioni di “Dark Star” e qualche altro spunto strumentale pre e post “Drums” (le famose sezioni “Jam”).
Qui è opportuna una breve illustrazione a beneficio dei poveri di spirito (ma loro è il Regno dei Cieli) che non avessero dimestichezza con tali diciture, e lorsignori abbiano indulgenza, perché come tutti i Deadheads non riesco a concepire l’esistenza di infedeli che non professino il Verbo di Garcia. Quando i Grateful Dead sviluppano la loro compiuta forma musicale, in qualche momento dalle parti del ’67, coesistono in Loro due diverse anime, che solo in questa band riusciranno sempre a convivere e a compenetrarsi: la conoscenza e la venerazione della musica tradizionale degli USA – dal bluegrass alla jug music, dal country al rock and roll, dal soul al R’n’B – e la capacità di perdersi e perdere gli ascoltatori nelle più incredibili jam che la musica rock abbia mai registrato. Queste torrenziali improvvisazioni sul palco, non di rado superiori ai 30 minuti, potevano prendere spunto indifferentemente sia da “In The Midnight Hour” di Wilson Pickett (32 minuti nel 1967, da “Fallout From The Phil Zone”) che, tradizionalmente, da un singolino di tre minuti scarsi ed impatto gigantesco sulla storia del rock, di nome “Dark Star” (48 minuti nel 1972). Altro elemento caratteristico delle loro jams divennero la free form assoluta (talora dissimile dal free jazz solo per la mancanza dei fiati), la compresenza di diversi generi ed ispirazioni musicali nello stesso brano e la complessiva e costante gradevolezza ed epicità delle improvvisazioni anche le più atonali, il che diffuse ben presto la leggenda della costante telepatia sul palco tra i membri dei Dead. In effetti, sembra davvero ultraterreno il modo in cui la band asseconda costantemente le variazioni, le curve improvvise, i famosi “segue” tra i brani improvvisati dai singoli membri, in particolare dall’imprendibile e liquida chitarra solista di Jerry Garcia, “Captain Trips”. Le free improvisations dei Dead diverranno presto un’attrattiva speciale dei loro concerti, ed anche quando il moltiplicarsi dei classici e la contrazione del minutaggio medio dei brani (al termine del periodo “acido”) suggeriranno la diradazione dal set o la liofilizzazione delle leggendarie “Dark Star” e “The Other One”, la band inserirà sempre sezioni improvvisate più o meno ampie, dai cinque ai dodici minuti, sovente ripetute più volte nei chilometrici set (anche cinque ore di concerto).
Questo “Infrared Roses”, collage tra sezioni eterogenee e date distanti tra loro, è strutturato in forma di quattro suite (come le quattro facciate di un doppio album live) di tre movimenti ognuna ed è caratterizzato dal suono particolarmente futuristico che i Grateful Dead adottarono dal 1988 circa sino all’ultimo concerto del luglio ‘95, facendo ampio uso di MIDI guitars e sintetizzatori, snare e steel drums, bassi sintetizzati e tutto quanto fa spettacolo, inclusa una tonnellata di laser sul palco perché anche l’occhio vuole la sua parte e i Dead erano pur sempre quelli che nel ’78 avevano suonato ai piedi delle Piramidi con un light show davvero faraonico. Correttamente, il collage sonoro prende le mosse dalla musica spontanea che le legioni dei Deadheads hanno sempre prodotto con le voci, le mani ed i piedi in attesa dell’uscita della band, e cos’altro poteva fare una tribù di centinaia di pazzi che seguiva in motocicletta ed in auto, in camper ed in tenda i camion dei Grateful Dead concerto dopo concerto, location dopo location, durante tour lunghissimi? Scorrono poi paesaggi alieni, fiumi di zaffiro, cieli d’alabastro e spiagge d’ ossidiana, percussioni tribali e rhythm machines, chitarre synth e bassi pulsanti, il sax di Branford Marsalis e tutti gli effetti che la band è riuscita a radunare sotto questa galassia di percezioni psichedeliche e sempre elegantissime (come gli effetti sonori di “Dark Side Of The Moon”). Tra le grandi improvvisazioni qui selezionate citerò solamente “Little Nemo In Nightland”, un titolo meraviglioso ispirato al personaggio di Winsor McCay per uno dei brani più belli ed immaginifici che i Dead abbiano mai registrato, nella speranza che l’ascolto di questo bignamino spaziale di 58 minuti (composto comunque da estratti di concerti per lo più inediti) suggerisca l’approfondimento, l’affezione e dipoi la frenesia nei confronti dei leggendari, perduti Grateful Dead. Nel 1995 Jerry lascerà il mondo terreno, senza dubbio sorridendo come aveva sempre fatto in tutta la sua vita, e non ci saranno dubbi sulla fine del gruppo. Nonostante le occasionali reunion ed i progetti nostalgici degli Other Ones, Dead e Furthur, non è probabilmente possibile immaginare la band senza quelle famose nove dita e nessun chitarrista ha sinora osato immaginare di prenderne il posto. La chicca per i Deadheads è l'appuntamento del 4 luglio 2015 a Soldier Fields, dove si tenne l'ultimo concerto dei Grateful Dead e l'ultima apparizione pubblica di Jerry Garcia, per una celebrazione insieme ventennale e cinquantennale (i Dead si sono formati nel 1965) ed una reunion di almeno tre concerti, che si preannunciano ovviamente leggendari e pieni di ospiti. In tutti questi anni Bob Weir, Phil Lesh e i due drummers Hart e Kreutzmann si sono dimostrati oltremodo attivi, impegnati in tanti progetti e sempre talentuosi, e tutti noi ci aspettiamo una nuova pagina di storia. “And we bid you goodnight”!
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