La più straordinaria canzone di post punk inglese degli anni ottanta è… svizzera. La band si chiamava Grauzone e la canzone “Eisbear” ovvero “Iceberg”. La band veniva dal freddo, come la canzone del resto, ed stata fatta “santa subito” dai “nerini” degli anni ’80. In effetti “Eisbear” è un pezzo veramente fantastico. Ha un’atmosfera gelida e misteriosa, costruita su un tappeto di sintetizzatori marziali e sul ritmo “pesante” di una drum machine che non fa sconti. Parole declamate in tedesco che non hanno mai significato una cippa, neanche per i tedeschi. E poi gli schizofrenici gemiti di un sax stonato su una flebile linea di chitarra. "Disco music futurista" avrebbe detto qualcuno, il pezzo che i D.A.F. non sono mai riusciti a scrivere, avrebbero affermato altri. Boh, fatto sta che “Eisbaer” è un evergreen straordinario, lo era negli anni 80 su una pista da ballo di Berlino come in un juke box di Roseto degli Abruzzi. Lo è ancora adesso nel settantunesimo extended remix del nipote di Molella o nella colonna sonora di un reality sudcoreano. Semplicemente e, ammettiamolo, forse anche un pò casualmente, un capolavoro.

Intorno a quella canzone i Grauzone dei fratelli Eicher hanno poi costruito una asciuttissima carriera, fatta di un album di esordio e di una manciata di singoli che sono stati raccolti nella recente doppia antologia che qui recensisco. Poi si sono sciolti, proprio come si sta sciogliendo il polo, e sono spariti nella stessa nebbia gelida dalla quale erano venuti. Non c’è mai stato un ritorno. C’è chi tramanda di un loro fantomatico tour nel 1981, una decina di improbabili concerti nelle balere dei Grigioni, che flash… Spesso voltavano le spalle al pubblico suonando nella quasi oscurità e si beccavano sputacchioni e bottigliate sulla schiena come piovesse. Le registrazioni che restano, allegate alla versione deluxe della ristampa, provano la loro estrema imperizia tecnica ma hanno una carica virulenta e pervicace, roba che oggi non si trova più neanche nelle baby gang. Come altri loro coevi, amavano una simbologia provocatoria e indecifrabile, e ci “stavano un casino dentro”. Anzi, si divertivano a creare un senso di ambiguità “molto punk”, nelle grafiche, nei testi e nelle dichiarazioni d’intenti. Insomma, avevano un’immagine passiva-aggressiva e con la stampa non parlavano mai volentieri, ma questa è una storia già vista altrove. Ah importante, si sono separati all’apice del loro successo (!?), prima ancora di suonare fuori dal loro paese natale. Decisamente tutto "molto 1981”.

I Grauzone sono pertanto rimasti prigionieri del loro stesso tempo, bloccati in quella mitica era post punk/new wave che gli anni hanno ingigantito come una leggenda. A rendere le cose ancora più cristallizzate nel passato, i Grauzone non si sono abbandonati alla recente mania della riunione, che ha travolto molti dei loro coetanei. Pensate addirittura che uno dei fratelli Eicher, tale Martin, vive tuttora da eremita in rifugio di montagna, in vero stile Salinger.

Le canzoni del doppio disco vinilico dal titolo omonimo, in origine singolo, ristampato recentemente dalla programmatica “We Release Whatever The Fuck We Want records”, trasmettono brillantemente l'atmosfera di quel tempo litigioso, alienato e paranoico. Le forme pensiero tormentate e romantiche che il cantante Martin Eicher offre nelle sue liriche sono assolutamente in linea con gran parte di una scena punk svizzera, a quei tempi attivissima e febbrile. La musica paga invece debito alle grandi band “sintetizzate” della vicina Germania, i Daf innanzitutto, ma anche i Palais Schambaurg e gli Abwarts. Anche se siamo parecchio lontani dal mitico singolo d’esordio, si possono piacevolmente riascoltare parecchi episodi interessanti in questa riedizione 2021. Smorzata in parte la furiosa carica punk dei loro concerti, nella versione in studio la band si rivela lucida, ispirata e capace. I ritmi sono quasi sempre freddi e ipnotici ma gli sprazzi di melodia illuminano a giorno. Come nella bellissima strumentale di apertura "Film 2”, o nella spettrale “Kälte Kriecht”, nella dolce e malinconica “Hinter den Bergen” come nella vitalissima ed energica "Wutendes Glas”. Tratti di sperimentalismo molto DIY ed echi di kraut rock non soffocano una vena creativa che rimane brillante anche dopo 40 anni. In un cocktail di frastagliate linee di chitarra post-punk, di sintetizzatori psichici e di liriche sputacchiate sul classico stile “Neu Welle”, il disco regge perfettamente l’effetto serra della nostra epoca. Nessuno può sapere se questi sperimentalismi “d’alta quota” avrebbero potuto far evolvere i Grauzone in qualcosa di successivamente più compiuto o se invece la band sarebbe finita all’Eurovisione a cantare dopo Albano e Romina. Fatto sta che l’inevitabile senso di malinconia alla “Giovane Werther” della loro breve epopea e il senso di fragile incompiutezza della loro parabola artistica sono tutto quello che ci resta, insieme a queste canzoni “calippiche”, conservate e conservabili benissimo anche fuori dal freezer. Assolutamente raccomandato.

Carico i commenti...  con calma