A quanto pare è proprio un periodo di grandi ritorni dopo assenze interminabili, come se i Tool avessero lanciato una moda. Il 2020 ha visto fra gli altri anche il grande ritorno dei norvegesi Green Carnation, band cult del sottobosco progressive metal attiva negli anni 2000.
Una band spesso sottovalutata, dotata di uno stile proprio e capace di rinnovarsi ad ogni album, all’attivo avevano 5 album tutti più o meno diversi fra loro pubblicati fra il 2000 e il 2006; riepilogando brevemente il loro percorso diciamo che il primo album aveva connotati molto doom metal, il secondo era costituito da un’unica lunga suite sospesa fra progressive metal e gothic metal, il terzo presentava all’incirca lo stesso approccio del secondo ma spalmato su diverse tracce, il quarto li portava verso un hard rock o meglio heavy rock più immediato e roccioso, il quinto era invece un raffinato disco acustico. Poi i problemi finanziari e la perdita di motivazione, lo stop a tempo indeterminato e il nuovo disco in progetto che viene rinviato a data da destinarsi. Poi l’annuncio nel 2014 di un ritorno per alcuni concerti fino all’insperato ritorno in studio.
Ed ecco così che ci troviamo contro ogni aspettativa a recensire il sesto lavoro dei Green Carnation. Partiamo col dire che “Leaves of Yesteryear” è una mezza truffa legalizzata e il motivo è semplice: solo 3 delle 5 tracce ovvero solo 24 minuti dei 44 totali sono costituiti da materiale inedito, le altre 2 sono un’auto-cover e una cover vera e propria. Già fui critico nei confronti dei Transatlantic che nel primo album inserirono una cover dei Procol Harum che impiegava 17 minuti su un totale di 77 minuti, cioè circa il 22% del minutaggio, figuriamoci qui che il materiale non proprio inedito occupa addirittura il 45%. Viene da pensare che le idee da metter giù fossero un po’ scarse, come anche che l’obiettivo primario della pubblicazione fosse quello di verificare l’effettiva esistenza di un interessamento nei confronti della band da parte di fan ed etichetta; quelle due tracce sembrano inserite quasi a forza per gonfiare il minutaggio, per far credere a tutti di essere davvero tornati con un nuovo album, pertanto penso che limitarsi ad un EP sarebbe stato sicuramente più onesto. Ma ci torniamo più avanti.
Le sonorità sono quelle che meglio si addicono al gruppo, quelle che hanno caratterizzato i capolavori “Light of Day, Day of Darkness” e “A Blessing in Disguise”, un progressive metal con chitarre rocciose dal vago retrogusto hard rock/heavy rock, linee di basso altrettanto rocciose e frastornanti, ma anche momenti soft dagli arpeggi cupi e gotici. Tuttavia qualcosa cambia, stavolta si rinuncia agli arrangiamenti orchestrali che rappresentavano un punto di forza in quei due dischi, qua vengono sostituiti da inserti ambient sofferti e drammatici, vagamente riconducibili agli Anathema del periodo gothic di fine anni ’90; tappeti di tastiere e organi rilassati di pinkfloydiana memoria, note di piano appena accarezzanti, fruscii sonori, ma anche qualche synth vivace a far da contrasto, come a voler infondere anche un tocco di positività, a stemperare la tensione che pervade l’intero album.
La title-track è probabilmente il brano che meglio alterna un po’ di tutto questo, colpiscono i loop di basso e gli effetti quasi corali delle battute iniziali, l’unisono chitarra/synth in stile prog molto tradizionale che interviene verso la fine, ma soprattutto i synth dal sapore quasi arena rock del ritornello, delle “trombette” in stile “The Final Countdown” che mai ci si aspetterebbe dai Green Carnation, suoni che nel finale vengono riproposti con ancor più vigore quasi fosse un inno di battaglia, sulla falsa riga dei Royal Hunt. La seconda traccia “Sentinels” ha invece l’incarico di essere il brano potente e diretto dell’album, è un macigno heavy metal/heavy rock che viene scagliato con la potenza di un meteorite, chitarre e bassi superpompati come non mai, ma anche qui troviamo nel ritornello un passaggio di synth insolitamente robusto e vivace che contrasta con i toni cupi del brano. In “Hounds” invece viene esaltata meglio la componente dark-ambient, la parte introduttiva è un sofferto manifesto guidato da soffusi tappeti, freddi riverberi e sommessi fraseggi acustici, poi però arrivano chitarra e basso che incedono con un passo non spedito ma rumoroso e sinistro, di tanto in tanto però gli innesti atmosferici si ripresentano con prepotenza.
Ma arriviamo ai due brani non proprio inediti. La chiusura dell’album è affidata ad una cover dei Black Sabbath, “Solitude”. Non sono un amante delle cover, a meno che non siano improvvisate al karaoke con gli amici, così come reputo inutili le cover band quando queste protraggono la propria esistenza oltre i primi concertini alle feste di paese, tuttavia ciò non vuol dire che non possa apprezzare una cover ben fatta. Questa cover è davvero incredibile e non ci sarebbe nulla di male nel considerarla perfino migliore dell’originale; se l’originale si caratterizzava per ottusi riff di chitarra e basso i Green Carnation la trasformano in un capolavoro ambient psichedelico di rara bellezza, con riverberi acidi, piccoli tocchi acustici e limpide note di piano, un’ideale colonna sonora per una giornata a metà fra pioggia e schiarite. Ci avevano già provato gli Ulver nel 2007 ma quella era poco più di una sterile copia, qua invece sembra davvero di sentire un brano targato Green Carnation. La cover perfetta, quella che merita di essere inserita in un album di inediti, non deve sembrare una cover, deve suonare a tutti gli effetti come un brano della band e qui i Green Carnation sono riusciti pienamente ad ottenere questo risultato. Personalmente avrei evitato ma poi mi ricordo che diversi gruppi hanno realizzato cover autentiche e praticamente originali facendole sentire davvero come proprie e perfino in grado di far dimenticare, in quei minuti, l’originale, spesso addirittura riportandole dal vivo come se fossero a tutti gli effetti parte del loro repertorio, pensiamo a “Feeling Good” rifatta dai Muse o “Hallo Spaceboy” rifatta dai Pagan’s Mind, o anche all’entusiasmo con cui è stata accolta “The Sound of Silence” rifatta dai Disturbed, sta di fatto che alla fine dico “sì, dai, ci sta anche”.
Non bastasse la cover ecco che il brano più lungo, quello che riveste il ruolo di colonna portante del disco, non è altro che “My Dark Reflections of Life and Death”, un brano ripescato dal primo storico album della band e risuonato in una nuova versione. Verso i rifacimenti di brani propri sono ancora più critico ma anche in tal caso preferisco ascoltare e valutare. Diciamo che qui un bel lavoro di ricostruzione è stato senz’altro fatto, il brano viene infatti spogliato di quella corazza doom originaria e ammorbidito con un approccio più prog-gothic metal che scorre sicuramente più liscio e digeribile, in più le ancora una volta onnipresenti incursioni ambient donano a questa nuova versione una profondità ed una leggerezza sonora non riscontrabile nell’originale. Non è una copia sterile, non hanno fatto certo come i Faith No More che nel secondo album hanno inserito praticamente una copia carbone di “We Care a Lot” o come Steven Wilson che da solista ha fatto un clone di “Don’t Hate Me” del quale non si sentiva granché il bisogno. Alla fine riesco ad accettare anche questa appunto perché non è una copia carbone, ricordandomi anche di quando i Radiohead hanno inserito in “Amnesiac” una versione completamente diversa di “Morning Bell”.
Ma resta di fatto che con una cover e con un’auto-cover hanno riempito quasi mezzo album. Ma a far mordere davvero le mani è stato il brano inedito che la band ha pubblicato lo scorso novembre; “The World Without a View”, composta e registrata dalla band in via del tutto eccezionale approfittando della forzata cancellazione dell’attività concertistica, è un brano incredibile che ha tutte le caratteristiche che rendono grandioso quest’album. Non sarebbe stato meglio concepirla prima ed includerla nell’album anziché occupare 15 minuti con un rifacimento di un vecchio brano?!
Ma evitiamo di chiedere troppo, alla fine sono tutte seghe mentali che il parlare di musica porta a costruirsi appositamente per avere materiale di discussione, i Green Carnation sono tornati alla grandissima e con la stessa determinazione ed ispirazione e questo basta.
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