Dopo l’uscita nel 2002 di “Shenanigans”, una raccolta di b-sides del gruppo statunitense, ancora una volta Billie Joe e compagni saltano sul palco e ci stupiscono con un nuovo lavoro, AMERICAN IDIOT, che fin dalla prima apparizione ha scatenato qualche problemuccio con l’America. Chi diceva che il titolo di “idiot” fosse riferito al presidente statunitense, chi invece controribatteva che non fosse riferito a lui… finché il frontman non ha chiarito ogni equivoco, sostenendo il riferimento al semplice cittadino americano, sovrastato in ogni aspetto della sua vita dai media, invasivi e soffocanti. Una sorta di condanna all’occhio del “grande fratello”? Ebbene sì, una condanna diciamo morale al carattere pervasivo dei media, che soffocano l’individuo e lo fanno diventare passivo, senza ideali, scoraggiandolo a lottare contro un sistema che non funziona come dovrebbe.
Partendo da una critica nei confronti dei media, che sembrano essere comandati dalle molteplici facce del governo, i Green Day hanno realizzato una meravigliosa opera-rock (definita dal pubblico la prima punk-rock opera), fatta di punk puro, pur con qualche vena di frustrazione, emersa soprattutto dopo l’attentato dell’11 settembre. Ma il celebre frontman smentisce che l’appellativo “idot” è riferito a Bush, ma dall’altro lo conferma mandando letteralmente “all’inferno” il presidente nel Live 8. Un album insomma che fin dalla prima comparsa sprigiona il successo mondiale di “Dookie”, album uscito nel 1994 e vince ben 7 nomination ai Grammy Awards, con una vendita totale di 10 milioni di copie (un successo equiparato a quello di “Dookie”). E inoltre si guadagna i meriti per i migliori video (“Boulevard of Broken Dreams”), e per un produttore d’oro come Rob Cavallo, che punta alla precisione e all’innovazione.
La rock-opera si apre con quello che sembra un inno ufficiale alla critica, protagonista dell’album e anche del live 8 di Berlino, dove i Green hanno suonato. Provocatoria e reazionaria, “American Idiot” si guadagna in poco tempo i primi posti delle classifiche musicali, specialmente in America, dove invece di essere boicottata viene esaltata. La critica appare esplicita (“Don’t want to be an american idiot, don’t want a nation under the new media…”) verso i media che sono cibo per l’idiota americano, che se ne nutre giorno per giorno diventando imbecille (nel senso etimologico della parola), perdendo il potere della propria coscienza, ormai dominata ed atrofizzata dal media, in particolare la televisione. Ciò che in questo brano emerge è soprattutto (a parte la già citata critica) la speranza che l’individuo possa riuscire a spegnere quella maledetta televisione, riporre quel maledetto telecomando in un cassetto isolato, alzarsi e cambiare il sistema! Guardarsi dentro, esplorare la propria coscienza è qualcosa che l’individuo ha perso, essendo immerso in un mondo dove è la tecnologia che tiene le redini. L’individuo è diventato un cavallo con i paraocchi, guidato non dalla creatività o mosso dall’azione, ma dai continui messaggi pubblicitari, dalle continue proposte allettanti che la televisione gli fa, barattando la sua condizione con una peggiore (come si dice “dalla padella alla brace”).
In un unico termine l’ALIENAZIONE ha preso possesso dell’individuo, che appare de-identizzato, cioè privato dell’identità con cui è nato, neanche una minima identità robotica ha salvato, nulla, soltanto l’alienazione gli è rimasta (“Welcome to a new kind of tension all across the alienation”), una nazione controllata dai media (“One nation controlled by the media”). Il tutto condito con un periodo di paranoia acuta, misto a frustrazione, che l’America ha dovuto sopportare dopo l’attentato di settembre (“And sing along to the age of paranoia”). Dopo questa intro, parte con energia “Jesus of Suburbia”, della durata di circa 9' 10" realizzata in modo nuovo perché divisa in parti, sospesa tra salvezza e dannazione, tra speranza che qualcosa cambi e inferno del mondo, credo sia più che altro una parodia a una summa di esperienze che Billie, Mike e Trè hanno vissuto. La critica seppur meno incisiva continua con “Holiday”, dove il caratteristico stile punk si sente forse molto più che in “Jesus of Suburbia”, con le chitarre che vengono picchiate come si deve (come in “American Idiot”). Fin dall’inizio del brano, una triste e mesta atmosfera si fa strada, contrastata dal ritmo veloce e scandito dalle chitarre, che però si nota dalle parole che escono dal microfono [“Hear the sound of the falling rain (…) the shame (…) and bleed the company lost the war today…"]… e poi la sentenza (“I beg to dream and differ from the hollow lies, this is the dawning of the rest of our lives, this is our lives on holiday”). Con la successiva “Boulevard of Broken Dreams”, il singolo che da solo ha venduto 3 milioni di copie, dove Billie si sofferma insistentemente sulla frase “I walk alone”, quasi a voler sottolineare l’idea della solitudine e della voglia di riflettere (aspetto che nel disco è abbastanza centrale, tanto quanto la critica), portata sempre da un senso di frustrazione interna che nasce molto probabilmente dall’intolleranza verso un sistema troppo monopolizzato e dominato dalla mancanza di reazione. La successiva “Are we the waiting” connota maggiormente l’aspetto riflessivo che il gruppo assume in quest’ultimo periodo come punto essenziale, perché l’essenza è tutta lì… nella riflessione, nello scavarsi dentro qualche volta, non rimanendo nell’ oscurità dell’ignoto di sé stessi, non rimanendo seduti in poltrona tutto il giorno a guardare qualche stupido programma in tv… riflessione che si accompagna all’ azione, all’uscita allo scoperto, è lo screaming un altro punto chiave dell’album, uno screaming ragionato, uno screaming che permette di uscire dall’ isolamento e dall’ omologazione. Con “St.Jimmy” si ritorna ai bei tempi di Dookie, dove il ritmo è frenetico, un po’ somigliante a quello della buona arte che i buoni, vecchi Ramones facevano (“Hey ho, let’s go!”, e di cui i Green Day hanno fanno tesoro. Le successive tracce danno prova di quanto i Green Day siano rimasti uno dei gruppi più influenti della scena musicale punk, non equiparabili secondo il mio punto di vista ai Blink 182 o altri gruppetti punk poco seri (mi riferisco dal punto di vista musicale), che pensano di fare punk, ma che in realtà fanno uno pseudo-punk.
Perché il punk vero, quello della Londra razzista degli anni ’80, quello che pestava duro, dove la provocazione, l’ambiguità e la promiscuità sessuale erano pane quotidiano, il punk dei Sex Pistols, dei Buzzcocks, dei Vibrators… è ormai decaduto da un po’, ma per fortuna uno spiraglio è stato portato da gruppi quali appunto i Green Day. Con “Extraordinary girl” sembra all’inizio di immergersi in una danza tribale, fatta di suoni esotici della savana, ma è solo l’inizio… che porta a un’allegra “ballata” che potrebbe sembrare a tratti punk melodico, a tratti buttata sul pop duro… ma che poi riacquista la vena punk, la loro classica vena punk. Altro singolo di successo è “Wake me up when September ends”, brano incentrato sul tema della guerra in Iraq, di cui è stato realizzato il video, che testimonia ampiamente quanto la guerra sia inutile e provochi dolori e sofferenze lancinanti a chi la vive e la esperisce sulla propria pelle. “Svegliami (o svegliatemi) quando settembre finisce” …sembra essere una sorta di letargo in cui Billie e compagni siano voluti sprofondare pur di non vedere lo scisma che la guerra ha provocato: da una parte gli aggressori e dall’ altra le vittime, che insanguinate e deliranti gridano contro un mondo ingiusto, che ha portato loro via la casa, la famiglia, l’affetto… L’album si chiude con “Homecoming”, in tipico stile punk dei bei tempi e “Whatsername”, caratteristica per l’alternanza di parti “soft” e parti forti.
Molti pensavano che i Green Day fossero in declino dopo il famigerato “Dookie”, ma credo che con questo album abbiano spiazzato l’intero mondo… bel lavoro!
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