Quando si parla di questo genere, si va ad affrontare un argomento anche più complesso della storia che lo caratterizza. Il punk, o meglio punk rock, ha influenzato generazioni, forme d’arte e aspetti culturali, partendo dalla musica, attraverso la letteratura, fino ad arrivare alla moda. Viene quasi automatico pensare ai Sex Pistols ma anche a Ramones, The Stooges oppure The Clash e la storia ci insegna quanto questi nomi siano stati influenti e iconici nella famosa prima ondata punk. Vivienne Westwood, la “Madrina del Punk”, per esempio, è stata la testimonianza vivente di come i Pistols siano stati fenomeni di moda e di costume.
Dai primi anni Settanta, quando iniziò ad emergere nella costa occidentale degli Stati Uniti (come prosecuzione del garage rock degli anni Sessanta), per poi approdare parallelamente e più concretamente nel Regno Unito, fino ai giorni nostri, il genere ha vissuto una progressiva evoluzione.
Se il punk inglese era grezzo, anarchico, nichilista, violento e provocatorio, quello americano subì una totale inversione di rotta negli anni Ottanta, con la nascita dello Straight Edge. Proprio sul finire di questo decennio, diveniva in generale complesso tradurre il genere in un’unica corrente di pensiero. Le classificazioni si erano ramificate; si andava dall’anarchismo, al comunismo, passando per l’apoliticità o l’estremismo, fino al totale rifiuto di ogni ideologia.
E siamo agli anni Novanta. Un altro decennio iconico per la musica, che ha visto nascere fenomeni mainstream come blink-182, Sum 41 ma anche Offspring, BadReligion e Green Day, appunto. Tutti nati sotto un’unica corrente, il punk-rock, voglioso di ribellarsi alle regole canoniche del punk, allontanando il nichilismo, l’atteggiamento da bad boys ad ogni costo, il disprezzo per la melodia e la poca propensione alla leggerezza. Basta serietà ad ogni costo, grezza cattiveria da ribelli, il punk sarebbe dovuto essere evasione, scazzo e divertimento.
Tra gli altri, i Green Day spiccarono all’interno della scena californiana già nei primi anni del decennio, essendo attivi nell’ambiente punk della Bay Area, partendo dal 924 di Gilman Street a West Berkeley, anche casa dei Rancid, AFI e The Offspring. Lo stesso luogo di aggregazione che oggi, dopo un radicale cambiamento di rotta e qualità della musica proposta, ha allontanato i Green Day dal gradimento vantato alle origini. Ma questa è un’altra storia.
Proprio quest’anno si festeggia il trentennale di “Dookie”, terzo iconico disco in studio della band di Billie Joe Armstrong, Mike Dirnt e Tré Cool e primo pubblicato su major (Reprise Records), nonché prodotto da Rob Cavallo. Le prime due release,“39/Smooth” e “Kerplunk”, invece, videro la luce sotto etichetta indipendente, la Lookout! Records.
“Dookie” è un album dal titolo grezzo e sempliciotto (in italiano letteralmente “Merda”), in linea con la tendenza dell’epoca in cui è stato ideato ma non per questo privo di contenuti in linea con un’intera generazione. Registrato nel 1993, è stato pensato e scritto principalmente da Billie Joe Armstrong ed è fortemente influenzato dalle sue esperienze personali. Fanno eccezione, nel processo compositivo, due tracce: “EmeniusSleepus”, realizzata a quattro mani con Mike Dirnt e “All By Myself”, ghost track composta da Tré Cool. Si canta la noia, l’ansia, il sesso, l’onanismo e le relazioni (non necessariamente in quest’ordine).
Tra le quindici tracce hanno fatto storia “Longview”, “Welcome to Paradise” (versione ri-registrata e già presente su Kerplunk), “When I Come Around”, “She” e soprattutto “Basket Case”, la canzone più famosa e rappresentativa della band, che ebbe il merito di attirare l’attenzione di Rob Cavallo e portare il primo contratto importante. Armstrong ha più volte raccontato che il testo della canzone parla della sua ansia e di come scrivere e rileggere le parole lo abbia aiutato a controllare i ricorrenti attacchi di panico.
“Longview” parla di noia, masturbazione e cannabis, con riflessioni prettamente adolescenziali nel testo:
«When masturbation's lost its fun/You're fucking lonely»
“She” è rivolta ad una delle fidanzate di Armstrong, con buona pace della moglie Adrienne Nesser, alla quale inizialmente tutti pensavano fosse dedicata. Forse i fatti narrati si collegano alle parole di “When I Come Around”, che racconta di una passeggiata tra amici dopo un’animata discussione del frontman proprio con Mrs Armstrong.
Con “In the End” e “Why do you want him?”, Billie si rivolge alla madre e al patrigno, senza nascondere la ben poca stima per quest’ultimo.
Gli ingredienti per esaltare un pubblico di scatenati adolescenti ci sono tutti. “Dookie” è uscito nel periodo più adatto possibile e ha segnato un’epoca, che che ne possano dire i puristi del genere o i nostalgici rappresentanti della prima potente ondata (ogni riferimento alle parole rivolte da parte di John Lydon alla band di Berkeley, sono puramente casuali).
La copertina un po’ confusionaria (ma interamente “raccontata” dalla band negli anni), lo stile folle e contemporaneo, la potenza ed immediatezza delle tracce, non possono che dare a “Dookie” il buon giudizio che si merita.
Ci sono volute tre settimane e una musicassetta demo riprodotta attraverso l’autoradio di Rob Cavallo, per andare a meta. Per il trentennale il disco è stato riproposto in diverse versioni: un vinile colorato, una raccolta di compact arricchiti con le vecchie demo e un costoso boxset con rarità, inediti e memorabilia. Solita operazione scaltra da major, ovviamente. Ma anche l'opportunità di possedere un piacevole oggetto da collezione, per tutti coloro che questo album non se lo sono ancora tolto dalla testa ma soprattutto dal cuore.
Hanno deciso di chiamarlo “merda” e ha dimostrato di valere oro. E saremo qui a ricordarcene sicuramente tra altri trent’anni, anche con poca memoria e le orecchie a mezzo servizio.
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