11 ottobre 1995. “Dookie”, album della svolta per la band di Berkeley, ha venduto più di dieci milioni di copie. Il successo è enorme, a tratti ingombrante ed è proprio questo che manda in tilt Billie Joe Armstrong e compagni.
Non mancano le critiche vomitate dai puristi del genere ed è ancora forte nelle orecchie il rumore della porta del 924 Gilman Street, sbattuta in faccia a chi era stato prima spettatore e poi contribuente del club.
E allora, dopo soltanto dodici mesi dal potente scossone alle loro carriere, i Green Day pubblicano “Insomniac”. Una mossa commercialmente rischiosa ma musicalmente dovuta, per dimostrare che si, la dimensione del successo sta aumentando ma l’identità non si è spostata di un millimetro.
Il filo conduttore delle quattordici tracce (come già visto in passato) è l’ansia, accompagnata in questa occasione dalla rabbia. Billie Joe è da poco diventato padre e sono proprio il suo stato psicofisico e la mancanza di sonno a suggerire il titolo del disco.
La copertina si chiama “God Told Me to Skin You Alive” e il suo collage di immagini è opera dell’artista Winston Smith. È un esplicito omaggio alla canzone dei Dead Kennedys “I Kill Children”. Tra le cose, il dentista che compare tra i vari soggetti riuniti in copertina è tratto da un altro collage, questa volta presente sulla copertina di “Plastic Surger Disasters”, sempre dei Kennedys.
La produzione è affidata ovviamente a Rob Cavallo, fresco Re Mida e mentore del trio e l’etichetta rimane la Reprise Records. Il songwriting (tutta opera di Armstrong) è farcito di umorismo e sarcasmo e musicalmente l’intero lavoro presenta un suono punk più hardcore e in generale più cupo e pesante.
L’opening “Armatage Shanks” mostra subito la direzione presa, palesando uno stato di spaesamento e una sensazione di mancanza d’identità al grido “Stranded/Lost inside myself”. Armstrong ha dichiarato di aver scritto il testo prima dell’uscita di “Dookie”, avvertendo già all’epoca un totale disaccordo verso la piega che stava prendendo il percorso della band. Stesso andazzo con “Geek Stink Breath”, che è uno schiaffo in piena faccia a chi si è permesso di dare ai Green Day dei venduti.
Si affronta il fresco e a tratti conflittuale rapporto con la fama tramite “Stuck With Me”, “No Pride” e la frenetica “Tigh Wad Hill”. La rabbia sale potentissima con “Bab's Uvula Who?" e con “86”, dove si parla con amarezza dello stato d’animo della band dopo essere stata rifiutata dal club Gilman e in generale da parte dei fan della prima ora. Queste due tracce, insieme a “Walking Contraddiction”, contengono ritornelli catchy, al contrario delle restanti undici, che mantengono una linea più cupa.“Brain Stew”, terzo singolo estratto, riprende il tema dell’insonnia e rende perfettamente l’idea con riffe drumming a singhiozzo, che sfociano poi in un potente muro di suono.
Ci si distacca completamente dal filo conduttore, dalle preoccupazioni e dalle ansie con “Brat”, “Stuart and the Ave” e “Westbound Sign”, che rimandano ai primi anni Novanta e alla genuina e pazza voglia di fare punk senza condizionamenti o pressioni. Solo puro divertimento e voglia di fare casino:
Seasons change as well as minds, and I'm a two faced clown
You're Mommy's little nightmare drivin' Daddy's car aroundWell, destiny is dead
In the hands of bad luck
Before, it might have made some sense
But now it's all fucked up
“Panic Song” è la traccia più emozionale ed esplicita, dove il mondo viene dipinto (già nei Novanta) come una macchina impazzita che produce soltanto merda (vedi “Dookie”). E’ l’unica canzone che supera i tre minuti di durata, in contrapposizione a “Jaded”, la più fulminea e scatenata (solo un minuto e mezzo) ma gemella nei contenuti, accusatori e pessimistici (“There is no progress, evolution killed it all, I found my place in nowhere”). L’introduzione sincopata di “Panic Song” che si protrae per un terzo della durata del pezzo, porta in modo graffiante ad un cantato che si rifà all’ansia di Billie Joe e agli attacchi di panico di Mike Dirnt, causati dal martellante pensiero rivolto al piccolo problema congenito al cuore del bassista. La leggenda narra che Tré Cool finì la registrazione del pezzo con le mani piene di un misto tra calli e sangue, a causa del drumming forsennato.
“Insomniac” vendette circa due milioni di copie, non proprio un insuccesso a conti fatti. Ma l’obiettivo prefissato non venne centrato, rispettando il detto che ci ricorda come il disco che segue un primo enorme successo, sia sempre destinato a crescere nella fredda ombra del suo predecessore.
Una volta tirate le somme arrivò un’onda anomala di stanchezza e stress e Billie Joe, Mike e Tré si trovarono sempre meno a loro agio al cospetto di quella nuova dimensione artistica, fatta di grandi e distanti arene gremite di migliaia di fan. Dalle stalle alle stelle, in uno schiocco di dita e senza neppure rendersene bene conto. Fino ad accorgersi che in quella stalla ci si sentiva molto più a proprio agio e da lì si potevano comunque vedere le stelle. Questo portò a rinunciare momentaneamente alla musica dal vivo, per dedicare tempo di qualità agli affetti. I momenti passati a casa con la famiglia portarono nuova maturità, ispirazione e una manciata di canzoni inedite. Ma questa è un’altra storia, che porta alla nascita di "Nimrod".
Personalmente sono molto affezionato a questo disco, sottovalutato da sempre ma molto potente e convincente ad ogni suo ascolto, anche a distanza di tempo. L’anno prossimo “Insomniac” spegnerà trenta candeline e sarà omaggiato sicuramente a dovere, facendo seguito al doppio vinile uscito in piena pandemia, dopo venticinque anni esatti da quell’autunno di metà anni Novanta. La doppia pubblicazione del 2021 contiene un LP dedicato a nove tracce eseguite dal vivo durante il live di Praga del 1996.
E’ passata una vita dalle prime note strimpellate dagli allora “Sweet Children”, consegnati poi alla storia come “Green Day” e nonostante le critiche e le onde anomale del tempo, siamo qui ancora a parlare di questo punk rock californiano, che ha stravolto le regole del gioco, inventandosene di proprie.
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