Come si sa, la famiglia è importante. È tutto nella vita. È quel porto sicuro dove si attracca quando il mare è in tempesta, dove ci si rifugia nei momenti di difficoltà.
A metà anni Novanta, l’oceano che lambiva le coste della California e di Berkeley in particolare, era particolarmente agitato. I Green Day erano reduci dal grande successo di “Dookie” e da quello tiepido di “Insomniac”, comunque consacrati al pubblico planetario e in piena ascesa come band. Il successo travolgente, il cambio di prospettiva e la stanchezza hanno fatto il resto, gettando i nostri in una profonda crisi d’identità. Il tour europeo troncato, una vagonata di ansia, parecchio alcol e infine il crollo.
E qui arriva la famiglia. Durante la pausa di riflessione al cospetto del focolare domestico, Billie Joe, Mike e Tré non sono comunque rimasti con le mani in mano. Mentre sbocciava la consapevolezza e la maturità si allungava sulle eclettiche personalità del trio, sono venute alla luce tre dozzine di tracce.
Esattamente due anni dopo l’ultima pubblicazione, il 10 ottobre 1997 esce “Nimrod”, il quinto album in studio.Sempre su Reprise Records e sempre in compagnia del mentore del gruppo, Rob Cavallo.
Ancora un cambiamento, ancora una sostanziosa dose di rischio da assumere, “Nimrod”era anche questo.
Questo disco è la cosa più lontana da un concept album e dalla definizione di punk puro, anche al cospetto della variante californiana del genere. Ogni traccia è una realtà indipendente, seppur tratti temi divenuti ormai una sorta di imprinting della band. Questo quinto lavoro nasce con lo scopo di rompere i vincoli tipici del punk rock, pur mantenendo la rotta. Il songwriting, sempre affidato ad Armstrong, è come al solito di qualità. Si spazia e lo si fa parecchio. “King for a Day” è un pezzo ska punk, con la sua sezione di fiati, “Last Ride In” ha influenze surf rock.“Hitchin’ a Ride” si apre con il violino mediorientale di Petra Haden dei That Dog, guidata da un eclettico basso che la rende una traccia tipicamente rock’n’roll, strizzando l’occhio al rockabilly. “Worry Rock” è stata affiancata dalla critica a pezzi di Elvis Costello e i riff di “Redundant” richiamano le chitarre suonate in pezzi storici dei Byrds. Non manca neppure il punk più scatenato con “Platypus (I Hate You)”, a tratti devastante nei riff e nel drumming.
C’è anche la ballata, “Good Riddance (Time of Your Life)”, divenuta marchio di fabbrica con il passare degli anni. Avrebbe dovuto fare parte della tracklist di “Dookie” ma venne scartata al tempo, perché poco pertinente con il filo conduttore dell’album. Un pizzicato romantico guida la voce di Billie Joe, che intona un testo malinconico dedicato al fallimento della sua prima importante relazione. La protagonista dei fatti narrati è la stessa ragazza che ha ispirato “She” (Dookie), “Whatshername” (American Idiot) e “Amanda” (Tré!). Stranamente e se vogliamo incomprensibilmente, la gentil donzella non ha nulla a che fare con la storica consorte di Armstrong, Adrienne Nesser.
Come accennato prima, questo disco tratta temi più riflessivi e maturi rispetto ai lavori precedenti. Billie Joe Armstrong si concentra sulla paternità e sul ruolo di marito. Con “The Grouch”, un po’ in controtendenza ma a titolo di riflessione, si affronta la paura di invecchiare, di ingrassare, addirittura di diventare impotente e di perdere i propri ideali. Con “Walking Alone” il pensiero vira sulle amicizie perdute con il passare del tempo o di quelle che potrebbero svanire per colpa della poca attenzione.
Essendo il contenuto della tracklist altamente eterogeneo, si passa in un attimo dalla riflessione al cazzeggio, come il punk effettivamente vorrebbe.
E allora “Nice Guys Finish Last”, la scanzonata opening, torna ad affrontare il tema del successo e dell’arroganza delle figure che manovrano l’industria della musica. “Jinx” e “Prosthetic Head” sono puro cazzeggio e con i testi autoironici ci ricordano che i Green Day non hanno comunque intenzione di prendersi troppo sul serio.
Il titolo dell’album fa riferimento a un personaggio della Bibbia, un cacciatore, ma lo scopo del rimando è tutt’altro che nobile. Il termine “Nimrod”, infatti, viene utilizzato dagli americani per dare dello stupido, facendo riferimento più che altro all’omonimo cacciatore protagonista dei Looney Tunes, Elmer Fudd, soprannominato sarcasticamente così da Bugs Bunny.
La copertina è stata realizzata da Chris Bilheimer, grafico amico di Armstrong, che aveva già creato alcune cover per i R.E.M. Bilheimer si era ispirato ad alcuni manifesti elettorali che aveva visto girando per la città. I volti dei candidati erano stati strappati, come a voler privare i soggetti nella fotografia della loro identità. Che in definitiva è proprio ciò che vogliono trasmettere le diciotto tracce che compongono la tracklist.
La storia narra che “Nimrod” debuttò tra luci e ombre. Il tour promozionale partì con una rivolta popolare negli spazi della Tower Records di Manhattan, durante l’esibizione live del primo firmacopie. I Green Day non gradirono le critiche feroci mosse dalla stampa del settore, che li accusava di aver perso l’anima punk. Critiche riprese poi da parte delle millequattrocento persone presenti all’evento. La questione si chiuse con il lancio di una grancassa sul pubblico da parte di Cool e con la tentata emulazione del gesto da parte di Armstrong, stavolta con un monitor. Epilogo evitato solamente grazie al provvidenziale intervento del direttore del negozio. Ciò non dissuase comunque Billie Joe, che si congedò dalla Tower Records solamente dopo aver imbrattato le vetrine del negozio con scritte varie, tra le quali “Fuck” e “Nimrod”. Realtà o finzione a scopo commerciale?
Ai posteri l’ardua sentenza.
La versione pubblicata l’anno scorso, in occasione dei venticinque anni dell’album, contiene una demo, “Irritate Me”, inizialmente scartata dalla tracklist originale e una cover di “Allison” di Elvis Costello, insieme a trenta tracce bonus e versioni live.
“Nimrod” è l’ennesimo disco di rottura, che ha tolto ai Green Day una buona fetta di seguaci ma ha fatto guadagnare loro nuovi consensi e una nuova fanbase. È anche un lavoro coraggioso e maturo, eterogeneo e molto potente. Con Dookie e Insomniac forma un trittico granitico per l’attività della band nel loro primo decennio di musica. E ha indubbiamente scavato un profondo solco, che lo si voglia riconoscere oppure no.
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