Si è spesso dibattuto circa l'esistenza vera o presunta del grunge: secondo alcuni è un fatto realmente accaduto, per altri invece si tratta dell'ennesima trovata qualunquista dei media. E' risaputo che le etichette, troppo spesso arbitrarie e limitative, siano pane per i denti dei media. Tuttavia non si può negare che nella seconda metà degli anni Ottanta e nella prima dei Novanta abbia avuto luogo nel Nordovest statunitense, in particolar modo a Seattle, un fenomeno musicale, una corrente artistica più che un semplice genere, che, seppur ampia ed eterogenea, può essere codificata con una sola definizione. Volenti o nolenti la parola che è stata scelta a tale fine è nientemeno che "grunge". Gli artisti ad essa collegati, pur essendo spesso diversi tra di loro, condividono lo scopo di riportare in auge una musicalità intensa ed espressionista, una spontanea antitesi della coeva tendenza glam/hair metal e dei suoi toni superficiali e festaioli. I pionieri di questa ricerca sonora sono senz'altro i Green River, padri fondatori indiscussi della scena di Seattle e io consiglio a scettici e "miscredenti" di ascoltare "Come On Down" (1985), il loro esordio, un mini-album di sei canzoni tanto grezzo ed imperfetto quanto importante e seminale. Il cantante Mark Arm, i chitarristi Steve Turner e Stone Gossard, il bassista Jeff Ament e il batterista Alex Vincent sono cinque giovani dalle diverse impostazioni e passioni musicali e con l'obiettivo comune di farle confluire in un unico complesso. Per questo in "Come On Down" convivono l'urlo e la rivolta della Detroit bianca di fine anni Sessanta e del suo figlio più illustre, il punk, una muscolarità hard rock spesso a un passo dal metal, momenti sfuggevoli di psichedelia plumbea e rumorosa e persino alcune linee di basso che non sarebbero dispiaciute a qualche gruppo new wave. La somma di queste cifre stilistiche da un risultano un tantino frammentario e non sempre convincente (la sconclusionata e un po' irritante Tunnel Of Love), ma sicuramente originale e fuori dagli schemi. Basta ascoltare l'inaugurale Come On Down per capire che non si tratta della solita minestra: un riff heavy conciso e granitico sul quale si staglia un canto sgraziato, quasi animalesco, lontano anni luce da certi istrionismi vocali caratteristici dell'hard e del metal. Non sarà propriamente "gradevole" l'aggettivo che qualifica questo ep, che però è ricco di intuizioni e talvolta non disdegna qualche melodia azzeccata: si ascolti l'alcolica Swallow My Pride, che sembra provenire dai Sessanta più esacerbati (il fraseggio di chitarra wah-wah nel secondo ritornello rievoca apertamente Ron Asheton degli Stooges) ed è indubbiamente la canzone migliore, persino memorabile.
Purtroppo i tempi non sono abbastanza maturi perché simili esperimenti vengano compresi e "Come On Down" riscuote un successo molto modesto. E' del resto difficile che tutti possano apprezzare un disco così scabro e senza compromessi. Tuttavia, con quell'attitudine menefreghista di matrice punk, con la più totale indifferenza dimostrata nei confronti delle classificazioni e delle distinzioni fra i generi, i Green River hanno dato una lezione non solo musicale ad un'intera generazione di artisti. Sono stati degli innovatori, a prescindere dalle carriere future dei componenti (Arm e Turner nei Mudhoney, Ament e Gossard in Mother Love Bone e poi Pearl Jam).
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