"White Soul" è la dimostrazione che non viviamo nel migliore dei mondi possibili. Perché nel migliore dei mondi possibili, un disco del genere sarebbe ascoltato e cantato dalle folle molto più di tanto flaccido disco-pop che ai tempi dei Green (o giusto qualche anno prima) pareva ai più il massimo dell'eccitazione che il panorama discografico potesse dispensare. D'altra parte, gli anni 80 furono per il rock la decade più moscia a livello mainstream, se si pensa che la rock band più popolare dell'epoca furono gli U2 (autori di un pugno di brani memorabili, ma indubbiamente ostili ad un concetto di rock come "viscere in bella mostra").
Viscere, quelle di Jeff Lescher, indiscusse protagoniste di "White Soul". Jeff Lescher è uno dei cantanti più dotati, più sanguigni e più audaci di tutti i tempi. Non si ferma davanti a niente. Non lesina urla strazianti, stecche, falsetti kitsch; e il gruppo lo segue, come un'onda inarrestabile che travolge un malcapitato surfista, come un gruppo di ubriachi che si getta a capofitto sulla vittima designata del montone, nei cori più scalcinati che il rock'n'roll abbia mai conosciuto. Jeff Lescher non ha remore a far sapere al mondo che è innamorato perso e che sta soffrendo come un cane. E questo basta a renderlo un impareggiabile veicolo di emozioni roventi e contrastate. Contrastate soprattutto: il melodramma di Jeff Lescher non può che essere messo in scena attraverso la dialettica del piano contro il forte, del dolce con l'amaro, del tenero col violento. Come nella straziante "Night After Night", che alterna carezze e sfoghi, risolvendosi in uno dei glam-rock più sinceri che abbia mai sentito. O come nell'insostenibile confessione di "I Love Her", contrappuntata da sardoniche backing vocals.

Tutte le canzoni di questo disco parlano d'amore: i titoli sono tra i più abusati nell'epopea delle love songs. E anche lo stile o, meglio, gli stili sono risaputi: "My Sister Jane" riprende pari pari Tom Petty, "Monique, Monique" aggiorna Ray Davies, mentre il fantasma di Alex Chilton aleggia su gran parte dello show. Eppure, nessuna di queste serenate dalla corazza classica ha l'aria di un esercizio di stile. Perché (e guai se ci si stanca di ribadirlo) nella musica rock l'importante è avere quel fatidico "qualcosa da dire". Poi il mezzo con cui dirlo viene da sé. Come innovatore, Lescher è stato insignificante: eppure i 12 brani di questo disco sono in grado di alterare la frequenza dei battiti del nostro cuore e di generare quella strano grumo nella zona della laringe.
Solo Westerberg è arrivato a tanto. E a Westerberg, quello di "Tim", Lescher contende la palma della miglior opener: proprio come "Hold My Life", la sua "She's Heaven" è un canto libero, alimentato da una chitarra errabonda, che nel momento in cui pare svanire si rigenera eternamente. La differenza, forse, tra questi due giganti (uno riconosciuto, uno un po' meno) del college-rock d'Autore degli anni 80 è che Westerberg si faceva portavoce di stati d'animo generazionali, mentre le tribolazioni del giovane Lescher erano un fatto prettamente privato, conseguenza di una delusione amorosa. E per tutto il disco, Jeff non si dà pace, nemmeno nella compassata "Hear Me" e nell'esuberante "I Don't Even Know Her", tentativi vani di distrarre la mente dal magone.

Gli episodi meno convincenti si hanno quando Lescher vuole fare il borioso, quando esagera, quando si rifà al soul-rock godereccio e superficiale ("I'm In Love With You"); o quando rispolvera retaggi garage ("I Beg, You Cry"); o quando infine si avventura nelle scale più ridondanti ("Give Me Your Hands").
E' impagabile, invece, quando passeggia angustiato ma non ancora abbattuto in "I'm Not Giving Up" o quando, nel magniloquente atto finale di questa tragica commedia, sparge carburante sull'ugola e le dà fuoco in un devastante "I Knooooooooooow": è l'apoteosi di questo estroverso capolavoro del rock romantico. In un rock, quello prodotto dalla "generazione X", spesso tacciato (ora a ragione, ora a torto) di apatia e di eccessiva introversione, non può che far piacere, di tanto in tanto, farsi sommergere dalle lacrime genuine di Jeff Lescher. E star male con lui.

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