Il 1975 vede i Greenslade impegnati nella realizzazione del loro ultimo disco, pubblicato il quale si scioglieranno, dando modo al leader Dave Greenslade di iniziare una sua carriera solista che darà i primi frutti già l'anno seguente con "Cactus Choir".

"Time and Tide" è un' opera discontinua, dove l'ispirazione dei lavori iniziali sembra essersi offuscata a favore di uno stile molto più semplice ed immediato. Le composizioni sono tutte piuttosto brevi e non mostrano i livelli di complessità a cui la band ci aveva abituati in passato. Il progressive degli esordi viene qui infatti contaminato da sonorità pop che rendono il disco forse fin troppo accessibile ma non lo privano comunque di spunti interessanti e pezzi degni di nota. Uno degli echi del passato che ci viene subito riproposto è costituito dall'illustrazione in copertina che torna a raffigurare il simbolico personaggio dotato di quattro braccia ideato da Roger Dean, questa volta però realizzato da Patrick Woodroffe (che si occuperà anche della veste grafica del secondo lavoro di Dave Greenslade, il doppio "The Pentateuch of Cosmogony" del 1979).

Il disco comincia e "Animal Farm" apre le danze in maniera decisa, sviluppandosi alternando parti lente ad altre più concitate. La voce di Dave Lawson si presenta in chiave piuttosto aggressiva e viene supportata dal ritmo sostenuto della batteria di Andrew McCulloch e dal frizzante basso di Martin Briley, che verso metà traccia si lanciano all'inseguimento della tastiera del cantante nella sua fuga solista. Martin in quest'album sostituisce il bassista storico Tony Reeves, uscito dal gruppo dopo la pubblicazione di "Spyglass Guest", e si occupa anche dei pezzi di chitarra che spettavano a Dave Clempson, perlomeno in alcuni episodi del disco precedente. Anche la seconda traccia "Newsworth" si basa su un ritmo piuttosto accattivante e non lascia molto spazio a sorprese di alcun genere. Greenslade e Lawson, che canta anche in questo pezzo, con il loro uso intrecciato delle tastiere, relegano gli altri musicisti al ruolo di comparse per la maggior parte della canzone. Dopo i primi due brani decisamente orecchiabili le cose cominciano a farsi più interessanti con i successivi tre, legati fra loro. "Time" è una composizione scritta ed eseguita da Greenslade, il quale permette solo ad un coro di voci maschili di accompagnare il suo harpsichord. Le sonorità medievali che ne risultano, sembrano possedere più di un punto in comune con il coetaneo "The Myths and Legends of King Arthur and the Knights of the Round Table" di Rick Wakeman. Alla fine di questa breve intro l'atmosfera si fa più cupa, Greenslade passa al mellotron ed esegue "Tide", un altro evocativo passaggio strumentale che ci porta infine a "Catalan", una composizione vivace e decisamente più complessa delle precedenti, che vede ancora una volta le tastiere in bella evidenza e gli altri strumenti impegnati ad inseguirle creando dirompenti fughe strumentali.

La seconda parte del disco inizia praticamente come la prima, "The Flattery Stakes" è infatti un pezzo molto ritmato e di immediata assimilazione, dove la ruvida voce di Lawson guida ancora una volta gli strumentisti in un'impeccabile esecuzione, priva però di spunti inaspettati. Le seguenti "Waltz for a Fallen Idol" e "The Ass's Ears" sono due canzoni unite come se fossero una sola composizione, tanto che la prima, nella sua struttura regolare, sembra essere una lunga introduzione, lenta e morbida, alla seconda, che mostra una struttura più altalenante, con la batteria di Andrew in bella mostra, dove le soffuse parti strumentali si alternano alle frenetiche parti cantate. La successiva "Doldrum", caratterizzata dalle arie calde ed introspettive intessute dalle tastiere e dal cantato lieve di Lawson, è una boccata d'aria fresca in un clima che lascia poco spazio alla creatività e alle atmosfere del passato. Il basso e la batteria sono assenti, infatti il brano è realizzato interamente da Dave ed è uno dei più riusciti del disco. La chiusura spetta a "Gangsters" che, pur non possedendo atmosfere particolarmente evocative, si rivela essere un variegato pezzo strumentale, utilizzato all'epoca anche come sigla di una serie televisiva.

Il disco così si conclude, come pure il cammino della band, perlomeno per un lungo periodo, fino all'uscita di "Large Afternoon" nel 2000. Dopo le raffinatezze dei primi lavori il gruppo si concede qui uno stile meno ricercato ma certamente non disprezzabile. L'album infatti, se ascoltato senza eccessive pretese, scorre liscio e piacevole dall'inizio alla fine, magari senza eccezionali impennate, ma senza nemmeno brusche cadute.

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