Questa Claire Boucher da Vancouver, che esordiva nel Dieci con Geidi Primes, aveva un potenziale massimo, un talento cristallino. Avrebbe potuto farci qualsiasi cosa.

Aveva - e ancora ha - la voce. Un delizioso e infantile angelico, bianco bianco. Sospirato tanto sulle relativamente basse quanto sui falsetti, altissimi, a volte chiusissimi e sottili, spesso lanciati in deliri mistici-asiatici free-form. Impreziosito da una bambinesca sibilante sorda blesa. Non c'era la perizia tecnica inarrivabile di Elizabeth Fraser, certo, ma c'era più di qualcosa della sua ipnotica malìa e la stessa attitudine al canto, allo sfruttamento di tutte le possibilità in estensione della propria voce. D'altronde i Cocteau Twins erano tra le influenze dichiarate di Grimes, e nelle onnipresenti stratificazioni vocali come parte integrante della composizione, si sentivano eccome. Ci metteva sopra anche tanto riverbero, e pure quello contribuiva, come sempre, alla stratosfera eterea sognante pop che avvolge questo disco.

Aveva lo stile: una principessina amazzone vegan ecologista, accessoriata sci-fi dai capelli cangianti, improbabili smalti, un visino e una magrezza che toglievano ai suoi già pochi (ventidue) anni. Una delle più riuscite combinazioni autoprodotte tra innocenza susanna-tutta-panna e aggressività stile capelli rasati di lato e frangetta da fellatio, che molte cosplayer-suicide se la sognano.

Ma Grimes sapeva essere più che un'eccentrica cantante dream pop nettamente sopra la media tecnica-espressiva del cantato dream pop, da Fraser in poi. E già sarebbe stato sufficiente. Era una cantautrice postmoderna, andava in giro in botta con microfono, sintetizzatori e drum machine varie, a fare tutto da sé. Come solo i grandi talenti, e i completamente pazzi, possono permettersi di fare.

Era una compositrice eclettica, immaginifica e fuori da ogni schema che evidentemente ragionava per trip, e Geidi Primes è il pianeta Giedi Prime di Dune e in tutto il disco sono sparsi riferimenti al classico fantascientifico di Herbert. Pure il moniker è preso da un artista che fa opere così. Ah, ma non aspettatevi un disco di cliché sci-fi con suoni cosmici da modernariato. Grimes ha inventato, su solide basi di derivazione - perciò dicevo «cantautrice postmoderna» - il suo spazio profondo musicale. Dei Cocteau Twins si è già detto, erano ovunque e nel post punk uranico di avi, tra Fraser, Blondie e canti popolari cinesi. Poi setup minimali, ritmiche semplici e rudimentali, synth standard impostati sull'epico etereo anni ottanta; ma anche fiati e corde tradizionali e sampling. Come Gambang, che prende in prestito chissà da dove un glitchoso (scusate) sample e ci gioca deliziosamente sopra a vocalizzi, come una controparte femminile a Dirty Beaches; peraltro, dove l'Hungtai canta americanissimo con i suoi tratti orientali, canta orientale con i suoi tratti canadesi la Boucher. Sarà la vicinanza all'Asia della British Columbia, come dicevo pure qui. Ma non c'entra.

Ma soprattutto la bellezza cristallina di Rosa, che spicca per atmosfera notturna da spazio profondo ergendosi su un unico giro di baritona, credo sintetica, e una ritmica demenziale. Strati su strati di voce e coretti uuuuuh molto Bilinda Butcher - e che bella la consonanza dei cognomi, anche se forse Boucher va pronunciato alla francese, chiederò - con improvvisi stalli vocali da brividi, davvero. Oppure la marcetta cosmica imbevuta di tastieroni di Grisgirs che per sonorità può ricordare certa roba trip-hop sperimentale tipo i migliori Archive, quelli meno terrestri. O episodi pericolosamente in bilico tra la melodia medioevaleggiante e il pop truzzo da classifica di qualche anno fa, come Feyd Rautha Dark Heart, in cui comunque Grimes fa sfoggio di basse inaspettate, che se non sapessi che è una mi verrebbe pure il dubbio (come mi era venuto appunto per i Cocteau Twins, che ascoltai da sprovveduto e pensavo che Fraser fosse due cantanti, entrambi molto brave). Ma anche la doppietta finale Shadout Mapes e i glitch di Beast Infection, cioè prendere le colonne sonore del vostro ristorante Shangai o Hong Kong di fiducia, levargli l'epos contadino, zufoli e launeddas e sganciarle nello spazio. Come anche in passaggi più francamente rompicoglioni, Sardaukar Levenbrech, che mantiene anche gli strumenti acustici tradizionali, ma accelera i classici andazzi bucolici e ci aggiunge un tum clap assai ingenuo. Ma subito dopo, la filastrocca malinconica di Zoal, Face Dancer suona esattamente come quel che avrei auspicato per un'evoluzione o una contaminazione convincente del twee-pop.

E tutto questo all'imperfetto, perché forse, nel giro di cinque anni, Grimes ce la siamo giocata. Ha firmato per la Roc Nation di quel beato lui di un Jay Z che non è altro. Come i Touché Amoré, esatto. Ha clamorosamente cannato un pezzo, perché la nuova Go non si può proprio sentire, sembra Skrillex e mamma mia. Scrive roba per Rihanna. Apre date di Lana Del Rey. Peccato.

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