"La Band definisce la propria musica 'Black metal', anche se nessun titolo può rappresentare correttamente la loro arte." (da www.metal-archives.com)

Seppur questa affermazione possa parere vanesia e boriosa è evidente già dalla copertina che per questo secondo lavoro dei canadesi Gris (datato 2007) non si possa quantomeno parlare di black metal "tradizionale": il paesaggio romanticamente fiabesco e tuttavia intriso di simboliche dicotomie rappresentate con semplicità nel suggestivo artwork suggerisce non solo l'ispirazione dei testi, imperniati generalmente sugli eterni confronti tra gioia, malinconia, vita e morte, affrontati peraltro in modo personalissimo e visionario, ma anche le atmosfere di alcune tracce chiave dell'opera.

Musicalmente parlando, il sound dei Gris può essere sommariamente ricondotto al filone Depressive, anche se incentrato su un utilizzo massiccio di synths e solos di chitarra pateticamente taglienti, nonchè di episodi del tutto strumentali e quasi orchestrali, impossibili da definire "solamente" ambient; merita inoltre menzione il singolare scream, gravemente cavernoso quanto aspro e rozzo, unico elemento dell'album che può fare storcere il naso assieme all'elevata durata media delle singole canzoni (circa 10 minuti).

L'intero "Il était une forêt..." (6 tracce in totale) può essere riassunto nella prima, nella seconda e nell'ultima, certamente le più significative. La titletrack, posta ad opener, ricorda soprattutto nella produzione "Filosofem" di Burzum: la musica del norvegese è tuttavia rielaborata, inserendo tastiere tenebrosamente gotiche rasenti il symphonic e vagamente simili ad alcuni passaggi di "Stormblåst" dei primi Dimmu Borgir. Se Vikernes è angosciante e disperatamente esasperante, i Gris sono ipnoticamente cupi; se "Dunkelheit" è una coltre impenetrabile di filtrata oscurità, "Il était une forêt..." è un'onirica eco tempestosamente epica di nostalgia, un Maelström vorticosamente alienante di ricordi distanti che si infrange prepotentemente annichilente sui meandri più occulti della memoria. La successiva "Le gala des gens heureux" è testualmente il brano più interessante: "Il ricevimento degli orgogliosi", introdotto da una lunga sequenza di applausi e vocals drammaticamente recitative, diviene metafora di emarginazione e violenta condanna verso l'indifferenza di coloro che "assistono alla deturpazione dei valori ma pagano per non accorgersene"; musicalmente poi risulta raffinato e celestiale l'intermezzo pianistico, efficace nell'impreziosire l'atmosfera vagamente teatrale della composizione.

Lo stesso tema (raramente ricorrente) della titletrack, il desolante ricordo di un'idilliaca coesione con la natura ormai svanita, è velatamente celato nella splendida e sorprendente ultima traccia: "La dryade" è infatti una suite acustica di dieci minuti alla quale partecipano violini, violoncelli, flauti, chitarra e pianoforte. Anche se priva di testo, col solo ed emblematico titolo i Gris iniziano l'ascoltatore colto alle sue particolari melodie, richiamando alla mente creature della mitologia greca, le driadi appunto, legate indissolubilmente ad alberi e boschi e quindi implicitamente alle naturalistiche ideologie del gruppo. Le delicate sinfonie della stessa, dolci ed evocative, tingono con la stessa innocenza quasi infantile dell'artwork immagini estatiche quanto sfuggenti, confuse ed impercettibili visioni di figure esili e sinuose che, inebriate da una musica sfrenatamente fatata, danzano leggiadre nella penombra di una foresta ancestrale: trattasi semplicemente del perfetto connubio tra folk e ambient, con una chiara ispirazione alla musica classica. La mediocre incisività di un paio di tracce non è sufficiente a sconsigliare l'album almeno agli amanti delle sonorità Depressive, seppur l'ultimo brano sia degno di un meritatissimo ascolto da parte di chiunque.

Carico i commenti...  con calma